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Monte di Procida, dialetto e curiosità: ritrèie, quièntere, zènzole e liupèrde

Attenzione: questo articolo potrebbe urtare la vostra sensibilità, se ritenete di essere “rèbbule re stòmmaco“, fermatevi qui!

A doppio o triplo velo, lunga, morbida, profumata, così come la conosciamo oggi, la carta igienica, è un’invenzione abbastanza recente, risale al 1857, ma non venne accolta subito con molto entusiasmo. La gente si rifiutava di sciupare quei piccoli pezzetti di carta pulita per uno scopo così poco elegante; altri la consideravano soltanto un inutile lusso, nonostante gli inevitabili problemi igienici e le immancabili irritazioni provocate dagli usi ed espedienti esistenti fino a quei tempi.

Da una recente statistica sembra che ognuno di noi consumi circa 4kg di carta igienica all’anno, ma il suo utilizzo di massa è alquanto recente: in Europa risale agli anni ’50 del 1900 e solo un decennio dopo si diffuse anche in Italia.
A Monte di Procida, agli inizi degli anni ’70, in buona parte, si utilizzavano ancora i metodi alternativi.

Ma quali erano le soluzioni adottate dai nostri antenati?

Prima dell’avvento della carta, si utilizzavano materiali di vario tipo; i nobili potevano permettersi di utilizzare lana di pecora imbevuta di acqua di rose; il popolo si arrangiava con i materiali più svariati a seconda della disponibilità. Gli antichi egizi utilizzavano sabbia intrisa con balsami ed oli profumati, mentre i popoli arabi e indiani si servivano, e pare che molti si servano ancora, della mano sinistra, perché la destra è utilizzata per mangiare. Mai porgere la mano sinistra ad un Arabo, è chiaramente un’offesa.

I contadini e campagnoli montesi erano sicuramente più “fortunati” perché potevano permettersi di utilizzare le erbe e le foglie delle varie piante disponibili nei campi; gli uomini apprezzavano molto “‘a frònne re vite” la foglia di vite, in quanto larga e non troppo ruvida, mentre le donne preferivano le fresche e morbide foglie del finocchio selvatico “‘u fenùcchio sarvàtico” o “‘u fenùcchietto“. Durante l’inverno, invece, veniva utilizzata quasi sempre la paglia “‘a pàgghia” opportunamente bagnata per renderla più morbida e per appallottolarla al meglio.

A bordo alle navi, i nostri marinai, erano soliti utilizzare pezzi di vecchie cime in fibra vegetale ammorbiditi con acqua di mare. La soluzione non era monouso ne personale; i mozzi di bordo si occupavano di riciclare tutti i pezzetti di cima dopo un veloce risciacquo in mare.

Dunque materiali non certo morbidissimi ne un utilizzo altamente igienico, ma cosa succedeva invece nelle case montesi?

Le tipiche case montesi avevano generalmente “‘u ritrèio fore ‘u vèfio“, cioè un gabinetto all’esterno della vera e propria abitazione, di solito posizionato vicino al muro parapetto del terrazzo o loggiato detto vèfio.

Il ritrèio è un nostro termine dialettale che deriva dal francese retraite che indica appunto la ritirata, cioè un luogo appartato dove poter espletare i propri bisogni in tutta serenità. In napoletano è indicato come retré oppure privàsa.

Il ritrèio veniva anche indicato semplicemente come “‘u luòco” o “luòco immòndo” e si diceva: “viàto a chi tène luòco e fuòco” cioè fortunato colui che dispone di bagno e cucina, inteso soprattutto come alimenti da mangiare e un posto tranquillo dove poter anche deporre le proprie deiezioni.

Solitamente, durante il giorno, per i bisogni corporali, si preferiva appartarsi in campagna dove ognuno aveva un posto preferito, “‘u pagghiariè“, composto da un buco scavato a terra “‘a fòssa” coperto da una trave trasversale e quasi sempre “‘nfraschèto” cioè nascosto tra le fresche frasche oppure occultato da fascine, paglia, fogliame e rami secchi.

In tempi più recenti ‘u pagghiariè venne sostituito da una sorta di ritrèio di campagna, “‘u cacaturo“, costruito in legno, dove all’interno potevano trovare posto anche alcuni attrezzi del mestiere: ‘a zàppa, ‘a mèzaluna, ‘a sarrècchia… anche qui vi era una fossa a terra con sopra una vecchia sedia sfondata o una panca composta da una comoda tavola orizzontale sostenuta da due pezzi di tronco o pietre laterali. Altre volte al posto del buco a terra vi era un grosso recipiente raccoglitore che veniva poi svuotato ed utilizzato come concime “naturale” per alcuni tipi di coltivazione.

Durante la notte, invece, non era semplice raggiungere i campi e spesso neanche il “ritrèio fore ‘u vèfio“, soprattutto durante gli inverni freddi e piovosi. Per ottemperare, quindi, ai bisogni fisiologici familiari, in particolar modo per coloro che non disponevano neanche del ritrèio, si utilizzava “‘u quèntero” o anche detto “càntero” soprattutto in napoletano, un alto e grosso vaso ceramico di forma cilindrica, con la bocca ampia ed i bordi larghi sul quale ci si poteva sedere comodamente e per questo detto anche “vaso di comodo” o pitale.

Etimologicamente, il termine “quèntero/càntero” deriva dal latino càntharu(m) che viene dal greco kàntharos ed è sostanzialmente una coppa grande.

‘U quèntero era di solito “ammàcchièto” vale a dire nascosto o sotto il letto o all’interno dello sportello grande della “culunnetta“, un comodino di legno dalla forma stretta ed allungata, una piccola colonna appunto, che solitamente era posizionata accanto al letto. Nella parte superiore della culunnetta vi era un “tiraturo”, cioè un cassettino che principalmente conteneva “‘a curòna ru rusèrio” e “re fiùre ri sènte” (il rosario e le immagini dei santi).

Me père ‘u quèntero ‘mmiezo ‘a gghiesa” recita un nostro detto dialettale proprio per rappresentare un qualcosa fuori contesto, un oggetto che non può essere messo in bella vista e quindi va tenuto nascosto come il “càntero nella culunnetta“.

E’ pigghièto quièntere p’arciùle” si dice a chi, convinto di avere tra le mani un qualcosa di valore o un buon affare, non si avvede di essere invece in grosso errore. L’arciùlo è un boccale di creta utilizzato per contenere e versare liquidi nobili come l’olio o il vino. Vi era anche un tipo di arciùlo utilizzato per la pesca dei polpi tipo le moderne nasse.

A chi invece era solito ostentare importanza e superiorità si diceva: “è nèto ‘mmiezo ‘a quièntere e pisciatòre e mò se re pretènne!” (è nato tra pitali ed orinali e adesso ostenta superiorità). Vale a dire: “sappiamo da dove vieni, è inutile che fai il nobile con noi!“.

Ritornando al càntero, ovviamente, esso ogni mattina andava svuotato dei suoi contenuti e ripulito alla meglio per permetterne il riutilizzo ed evitare la propagazione casalinga di fastidiosi miasmi emanati dalle sostanze organiche in decomposizione. Lo svuotamento avveniva direttamente nella “saménta” o “asamènta” cioè la buca di immissione diretta alla latrina (fogna o pozzo nero).

Svuotare il càntero non era certo un’operazione piacevole, ma era necessaria e da qui deriva il modo di dire del nostro dialetto “vutà ‘u càntero” che raffigura il rinfacciare torti e spiacevolezze subite riversando fuori il peggio di se stessi; un’operazione spesso sgradevole ma necessaria per dare sfogo alla propria rabbia ed evitare di farsi “‘u sanghe amàro“.

Secondo i nostri modi di dire dialettali c’è una sola cosa più insopportabile di un càntero pieno, e quindi inutilizzabile e maleodorante, ed è un suonatore di violino alle prime armi: “mègghio nu quèntero chìno ca nu giòvene re viulino“. E’ risaputo che il violino può produrre suoni armonicamente molto ricchi e dolci ma solo se suonato da un violinista professionista, perché questo strumento è molto difficile da imparare ed all’inizio si riescono a produrre solamente stridii insopportabili.

Anche per le nostre antenate donne montesi, però, vi era qualcosa di peggio del càntero esposto in bella vista in mezzo alla casa: “megghio nu quèntero ‘mmiezo ‘a casa ca nu marito ‘mmiezo ‘i piere“. E questo era il simpatico detto tipico delle mogli dei marittimi montesi quando il marito trascorreva a casa un po’ più di tempo del solito, tra un imbarco e l’altro.

Sopra al quèntero, per coprire i bisogni, si posizionava “‘a zènzola” cioè uno straccio, un brandello di tessuto o vestito dismesso, insomma “‘na pezza“, la quale era utilizzata anche per pulirsi al termine delle evacuazioni corporali.

Parlanno cu criànza“, questa pezza, in modo simpatico ed ironico era denominata “liupèrdo” o “liupardo” in quanto dopo i vari utilizzi collettivi prendeva irrimediabilmente le sembianze della pelle a chiazze marroncine chiare e scure tipiche del leopardo.

‘U liupèrdo era anche disponibile all’interno dei ritrèi, a volte sostituito da una spugna inumidita e fissata ad un rametto, una sorta di grosso cotton fioc. Successivamente, nei ritrèi, cominciò a trovare posto la carta di giornale opportunamente ritagliata a rettangoli ed appesi ad un chiodo.

Verso la metà degli anni ’70, in quasi tutte le case montesi, finalmente arrivò la carta igienica, era disponibile solamente di colore rosa o celestina ed era abbastanza ruvida …altro che dieci piani di morbidezza.

…with <3
— Pasquale Mancino

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