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La Storia di Monte di Procida

La storia di Monte di Procida

scritta dal prof. A.A. Gnolfo

Civiltà protoitalica e italiota

Quando, nel terzo millennio a.c., la civiltà sicana-mediterranea volse al tramonto, in oriente sorgevano gli imperi dei Sumeri e degli Egizi.

L’Italia quindi veniva invasa, a varie ondate, da popoli indo-europei: i Protoitalici Latini si stabilirono tra i monti Albani ed il Tirreno, Siculi ed Enotri a sud delle paludi Pontine.

Cuma e Miseno erano abitate da Opicì, una tribù degli Enotri. Essi, come i siculi, praticavano l’agricoltura e abitavano in capanne circolari seminterrate.

I Siculi, sospinti dagli Enotri e dagli Opicì, passarono in Calabria ed in Sicilia; mentre, agli inizi del primo millennio a.c., una seconda ondata di Italici arrivava nella nostra penisola: gli Umbri e i Sabelli, dai quali derivarono Sabini, Sanniti, Campani ed Osci.

Gli Opicì costruirono diversi villaggi nei Campi Flegrei, dei quali uno presso l’attuale Cappella e un altro, forse sul Monte; essi ebbero il loro centro politico in Cuma.

Agli stabilimenti commerciali creati nei Campi Flegrei da naviganti egei, verso il IX secolo a.c. fece seguito una vera e propria corrente migratoria di famiglie greche, le quali, anche se non sempre pacificamente, si stabilirono nelle città costiere italiane.

Esse, col passare degli anni, si fusero con la gente del luogo, creando la nuova civiltà italiota, che fu lievito per i popoli italici per un rapido sviluppo sociale e civile.

La stessa Roma adottò l’alfabeto e la monetazione di Cuma e si ispirò alla sua legislazione, alla sua filosofia, ai suoi culti.
Cuma fu dunque maestra di civiltà e potente, ma la base del suo splendore fu Miseno col suo porto o col Monte.

Il porto misenate, col suo duplice bacino, costituì per la navigazione a remi nel tirreno il rifugio più sicuro e più comodo e conferì allo Stato Cumano una funzione economica e militare di prim’ordine.

Il Monte, dominando l’unica via marittima seguita dalle antiche navi a remi, consentì alla Repubblica Cumana il monopolio del commercio dei metalli, che si svolgeva tra la Toscana ed il vicino Oriente. La fertilità del suolo infine fece di Cuma e Miseno il mercato granario più vicino e conveniente per Roma, la quale ebbe perciò coi Campi Flegrei intensi rapporti di commercio e di cultura.

Con l’inizio dell’Evo antico abbiamo i primi documenti storici sulla vita del Monte.

Il Can. Iorio nella “Guida di Pozzuoli”, parlando delle “antiche costruzioni… magnifiche” esistenti nella parte settentrionale ed in quella meridionale della collina Montese, concluse: “si son rinvenuti a molta distanza da Cuma, sul più alto delle colline, delle tombe greche, e quel ch’è più eleganti ipogei incavati nel tufo. Il fatto dimostra che gli antichi, si Greci che Romani, avevano come noi le loro edicole rurali con familiari sepolcreti adiacenti nelle loro case di delizie”.

Dalla romanità al cristianesimo

L’importanza di Miseno, del suo porto e del Monte crebbero definitivamente, quando i Romani, sconfitti Etruschi, Sanniti e Cartaginesi costituirono a Maremorto la base navale del tirreno.
Una colonia romana fu portata a Miseno, che divenne “Municipium” ed ebbe ordinamenti amministrativi autonomi.
Vi furono costituiti collegi sacerdotali ed eretti templi, di cui uno a Torre di Cappella, dedicato a Minerva; vi furono aperte terme pubbliche e un teatro con cavea addossata alle pendici orientali del Monte; fu istituito anche un campo per esercitazioni dei marinai a Miliscola.

Ville patrizie ed imperiali sorsero a Torregaveta, sopra Gaveta, presso Le Croci, a Monte Grillo ed in altri siti panoramici.

L’agro misenate, col suo porto e il Monte presto divennero il centro politico dell’Impero, Baia diveniva la “pusilla Roma” della società mondana, mentre Cuma iniziava ormai il suo declino.

Una rotabile costeggiava la spiaggia romana ed univa Miliscola con Miseno, Torregaveta e Cuma, proseguendo per Mondragone e per Roma.

Il Monte ed il porto di Miseno furono spesso testimoni delle trame politiche ordite dai magnati di Roma: Mario, sconfitto da Silla dovette lasciare la sua villa, che sorgeva sulla Gaveta, e rifugiarsi a Ischia; Cicerone venne a trovare Antonio per ottenere un lasciapassare e poter raggiungere Pompeo; Ottaviano ed Antonio si riunirono con Sesto Pompeo per rappacificarsi; Vespasiano, col favore della flotta misenate, potè aver partita vinta contro Metellio; infine sul Monte Tiberio, nella sua villa, concluse la sua vita terrena.

Nella stessa villa, trasformata in fortezza, secondo il Cantù ed il Muratori, sarebbe stato relegato l’ultimo imperatore romano: Romolo Augustolo.

Ebrei militavano nella flotta romana di stanza in Miseno. Il loro numero si accrebbe quando la diaspora disperse il popolo eletto. Ed ebrei seguaci di Cristo portarono presto il Vangelo anche a Miseno, che dovette essere una delle prime diocesi cristiane.

E’ molto verosimile che S. Pietro e S. Paolo abbiano visitato la comunità cristiana, fiorente già nel primo secolo, a Miseno ed a Torregaveta. Come cattedrale venne adibito il tempio di Minerva, a Torre di Cappella, dove si formò il diacono Sossio, che nel 305, insieme col vescovo Gennaro ed altri cristiani, ricevette la palma del martirio presso la Solfatara di Pozzuoli. Altra chiesa, dedicata a S. Pietro, forse lontano ricordo del passaggio dell’Apostolo per questi lidi, sorgeva a Torregaveta; altra ancora, dedicata a S. Martino, sul declivio occidentale del Monte, andava in rovina nell’anno 1485.

Nel secolo successivo i coloni Montesi, per adempiere i propri doveri spirituali, dovettero costruire una piccola cappella, dedicata alla madonna del Monte, successivamente ingrandita e dedicata alla Madonna Assunta in cielo. Sono recenti le chiese di Miliscola, Cappella, Case Vecchie; un’ultima chiesa, dedicata a S. Giuseppe, è sorta a Le Croci, per l’opera zelante del reverendo don Loreto Schiano.

Il Castrum

Dopo la caduta dell’impero romano, Miseno costituì, nell’ambito del ducato di Napoli, una contea, dalla quale dipendeva anche Procida.

Gli storici la chiamarono Castrum; città fortificata. In antichi documenti si fa menzione della chiesa di Sanctus Petrus ad Castellum, che sorgeva a Torregveta. Fortini sorgevano sul Monte: a Torregaveta, Gaveta, S.Martino, Torrione e, forse a Monte Grillo. Completavano la cintura fortificata la torre del capo di Miseno e Torre di Cappella, palizzate e fossate. La tradizione parla di gallerie sotterranee che collegavano, forse, tra di loro le fortificazioni.

In quale epoca Miseno sia divenuta Castrum non è dato sapere con certezza. Si sà che gli antichi preferivano dimorare, nell’età della pietra, in villaggi fortificati, costruiti sulle alture più inaccessibili.

Greci e Romani conobbero l’uso di torri di vedetta e di fortificazioni, elevate nei punti strategici.
Il fatto che Miseno viene ricordata dagli storici come “Castrum” e non semplicemente come “terra”, è significativo: vuol dire che la città e il Monte formavano un’unica entità fortificata e protetta dalle torri costruite nella parte più alta, nella quale si rifugiavano i misenati in caso di pericolo.

Le prime notizie di fortificazioni sul Monte le troviamo alla fine del VI secolo, papa Gregorio Magno inviava al vescovo di Miseno il denaro occorrente per creare un fortilizio a difesa della città e come rifugio in caso di pericolo.

Nel XII secolo, il fortilizio del Monte lo troviamo denominato “Castrum Sancti Martini”, dal nome di una locale chiesa, che sorgeva sul declivio occidentale.

Longobardi e Pontefici, Bizantini e Arabi si contesero il possesso del “Castrum” Montese, il quale secondo alcuni autori, appartenne, di fatto, alla Chiesa, prima ancora che lo Stato Pontificio assumesse esistenza giuridica.
E c’è addirittura chi sostiene che Miseno ed il Monte fossero inclusi nella famosa donazione di Costantino.

Invasioni barbariche

Le continue guerre tra Eruli ed Ostrogoti, Bizantini e Longobardi, le ripetute invasioni e devastazioni fiaccarono lentamente la vita nella città e sull’agropoli di Miseno, che fu ridotta ad un cumulo di rovine.

La stessa sorte toccò a Pozzuoli ed a Cuma. A poco a poco i Misenati cercarono rifugio in località meno esposte ai pericoli delle incursioni barbariche. Un gruppo di famiglie da Miseno si trasferì a Frattamaggiore.

Il clero misenate si trasferì a Procida, raggiungendo le famiglie che in precedenza si erano rifugiate nell’isola, la quale fino al X secolo non aveva avuto un vero centro abitato.

I più tenaci restarono sul Monte, protetti dalle locali fortificazioni. Per i bisogni spirituali, nelle festività solenni, veniva officiata la chiesa di S. Martino: così dalle ceneri della terraferma sbocciava la vita a Procida, la quale, come sappiamo da Stazio, al tempo dell’Impero era incolta e, quindi, abbandonata, come le altre piccole isole della costiera laziale e campana.

Per l’abbandono le strade flegree divennero impraticabili, sepolte sotto erbe ed acquitrini: le poche famiglie rimaste sul Monte per le loro necessità religiose e civili dovettero rivolgersi alla vicina isola e ne seguirono le sorti fino al 1907.

A fianco ai contadini che dimoravano stabilmente sul Monte, altri contadini facevano la spola tra la terraferma e l’isola. Restò sempre però, all’ombra delle torri Montesi, una fiammella di vita accesa per tutto il medioevo. Scomparve invece, ogni segno di vita a Bauli (Bacoli), di cui non si ebbe, più menzione, ed a Cuma, rimasta sul suo colle, muta testimone di un passato glorioso.

Distrutta Miseno, il Monte, seguendo le sorti di Procida, alla quale venne collegato amministrativamente, ebbe come primo feudatario Giovanni da Procida: un medico salernitano, investito nel VIII secolo della baronia omonima dal re di Sicilia.

Nel XVI secolo il feudo passava a don Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, il quale lo teneva fino a quando, nel 1734, Ferdinando il Cattolico ne riscattava il dominio per farsene una riserva di caccia.

La Rinascita

Il XIV secolo segnò l’inizio del rifiorire della vita sul Monte: il fuoco dell’Epomeo portò da Ischia sulla terraferma flegrea, a Baia, Torregaveta e Miliscola numerose famiglie isolane.

Altro flusso di popolazione verso il Monte si verificò da Procida, a causa delle terribili incursioni, operate da pirati arabi e turchi, i quali misero a ferro e fuoco l’isola suddetta svariate volte.

Si ripeteva, in senso inverso, quanto alcuni secoli prima era avvenuto: al flusso migratorio, lento, ma continuo, dalla terraferma verso Procida, avvenuto tra il VII e X secolo, succedeva un riflusso dall’isola verso l’antistante costa flegrea.

Durante il medioevo la vita sul Monte era costituita da qualche centinaio di anime: contadini, pescatori e soldati; va ricordato che le nostre città contavano solo qualche migliaio di abitanti.
Gradatamente la vita tornò a rifiorire sul Monte: le terre tornarono ad essere dissodate e coltivate, le vecchie cisterne riattate, i ruderi delle antiche ville e locali fortini adibiti ad abitazione dalla popolazione crescente.

La vita rifioriva al piano, a Cappella, come al tempo della romanità, e rifioriva in misura più sostanziosa sull’agropoli misenate, sul Monte, come, forse, già nell’età della pietra.
Poichè la rinascente borgata Montese godeva di speciale “franchigia doganale”, i generi di più largo consumo, come pane, farina, grano, vino costavano di meno che nei vicini paesi campani.

In tali condizioni appare possibile che dal Monte si dipartisse una fitta trama di contrabbando verso Pozzuoli e Napoli. Un’eco di quel mercato nero possiamo trovarla nell’arresto della moglie di Masaniello, imprigionata perchè portava della farina di contrabbando, proveniente, dicono gli storici, “dall’agro puteolano”.
Poichè solo il Monte, nella terraferma flegrea godeva di esenzione doganale, è assolutamente verosimile che quella farina provenisse dalla borgata Montese.

E i nostri contadini, che portavano la propria frutta a vendere a Napoli, in Piazza Mercato, furono tra gli iniziatori della rivolta napoletana del 1647.

E’ in questo periodo che il Cardinale Ascanio Filomarino concedeva in enfituesi ai contadini del Monte i terreni posseduti dalla Curia arcivescovile.

La popolazione stabile e fluttuante a Cappella e a Case Vecchie divenne sempre più numerosa sia per il flusso sempre maggiore di contadini dalla vicina isola, sia per la prolificità delle famiglie qui dimoranti.

L’incremento demografico crescente portò all’ampliamento della chiesa, cui venne aggiunta nel 1742 una seconda navata. Un nuovo organo e nuovi altari vennero allestiti dai fedeli e nuovi stucchi decorarono il tempio, nel 1776.

Quando la chiesa Montese venne elevata a parrocchia, nel 1853, i Montesi decisero costruire una terza navata, il cappellone, la sagrestia e la casa canonica.

Infine nel 1882 venne costruito il campanile, dotato di orologio, e si provvide a selciare la piazzetta antistante la chiesa.

Il Prezzo della libertà

Il rifiorire della vita sul Monte attirò l’interesse del fisco e del comune di Pozzuoli; ma la curia arcivescovile di Napoli rivendicò i propri diritti sui terreni che vi possiede, cosicchè i Montesi poterono sfuggire alle mire annessionistiche puteolane.

Lo stato giuridico di “terra franca”, di cui godeva il Monte danneggiava però le finanze di Pozzuoli, perciò gli esattori e gli amministratori puteolani tentarono, reiteratamente l’annessione del Monte.

Accusati di contrabbando, che sarebbe stato praticato in danno alle finanze puteolane, i Montesi dovettero sostenere secolari lotte per conservare la propria indipendenza e salvarsi dalle mire annessionistiche degli amministratori puteolani.

Gli esattori di Pozzuoli pretendevano, illegalmente dai coloni Montesi il pagamento della gabella sui commestibili, sul vino, sui barili, sulle restoppie zappate, sui prodotti agricoli trasportati a Procida, sui pesi e sulle misure, sulla molitura del grano, così come pretendevano il pagamento dell’imposta di famiglia.

Tali richieste erano assolutamente arbitrarie, in quanto il Monte amministrativamente dipendeva da Procida.
Il governo più volte diffidò i gabellieri puteolani dal molestare i contadini Montesi; ma le liti seguivano alle liti, e durante tre secoli, si ebbero oltre venti cause intentate dai Montesi contro l’amministrazione di Pozzuoli; e tutte le cause furono definite a favore dei nostri concittadini.

Ma i gabellieri di Pozzuoli con continui raggiri trovavano il pretesto per intervenire negli affari dei coloni Montesi.
Il 2 ottobre 1781, giorno degli angeli custodi, la misura delle angherie superò ogni limite e sulla collina del Monte scorse del sangue.
Gli esattori di Pozzuoli, simulando di avere ricevuto denuncia che dal Monte veniva praticato contrabbando di commestibili, ottennero autorizzazione ad eseguirvi un sopralluogo, facendosi accompagnare da una scorta di militari.

Il drappello arrivò sul Monte prima dell’alba, cominciando a perquisire varie case; ma più che qualche biscotto e qualche pezzo di pane non fu trovato. I gabellieri si recarono anche presso l’abitazione del reverendo don Biagio Porta, il quale ricordò loro come i Montesi avessero diritto a tenere in casa commestibili per uso familiare.

Don Biagio venne afferrato per la gola, picchiato, ferito. Alle sue implorazioni di aiuto accorsero alcuni contadini, disarmati.

Il drappello venuto da Pozzuoli scaricò i propri fucili contro i coloni, i quali risposero con una grandinata di pietre; altra scarica di fucili e altra grandinata di pietre.

I gabellieri ridotti a mal partito, si rifugiarono nella locale cappella. I soldati furono lasciati liberi di raggiungere il loro reparto, mentre i borghesi furono dai Montesi portati a Procida e consegnati alla competente autorità per i provvedimenti del caso.

Se oggi il Monte è un comune libero ed autonomo, lo deve alla tenacia ed al coraggio degli antichi padri, i quali meritano di essere ricordati quale esempio di dedizione alla grande causa della libertà e della giustizia.

La Repubblica Partenopea

Tra liti e giudici la vita del Monte si sviluppava per la laboriosità dei suoi cittadini, quando la ventata rinnovatrice della rivoluzione francese, spazzava via anche da Napoli i residui del feudalesimo medievale.

Sotto l’influsso delle nuove idee il ministro Tanucci trasformava le enfiteusi in censi, per cui i coloni Montesi divennero padroni, in una forma giuridica più ampia, dei terreni coltivati in proprio, con l’obbligo di pagare ogni anno una specie di gabella alla curia arcivescovile partenopea.

Le nuove idee venivano propugnate soprattutto dai piccoli proprietari e si sentiva ripetere: chi tene pane e vino ha da esse’ giacobino.

E giacobini, cioè favorevoli al nuovo ordine repubblicano, furono i Montesi. Una batteria di cannoni fu piazzata for ‘a torr per battere Procida, che era stata occupata dalla flotta inglese; e nelle acque Montesi, presso la secca del Torrione, la marina della repubblica partenopea, inferiore per numero, riuscì a contrastare il passo alle navi nemiche.
Gli uomini validi alle armi, dai sedici ai sessant’anni, si arruolarono nella milizia cittadina, la quale, opponendosi ai ripetuti tentativi di sbarco operati dai nemici sulle coste di Torregaveta e di Miliscola, riuscì a fare quarantadue prigionieri inglesi.

Gran parte del clero fu favorevole alle idee di giustizia e di libertà propugnate dalla repubblica partenopea: l’abolizione dei privilegi e l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sono princìpi conformi ai dettami del Vangelo, che non potevano non essere apprezzati dagli uomini preposti alla guida delle anime.
Però il cardinal Ruffo, vicario del regno borbonico, facendo leva sulla insoddisfazione della plebe più povera, armò i lazzari e si alleò con le bande dei vari Michele Pezza e Gaetano Mammone.

Così a metà giugno del 1799, la repubblica partenopea, assalita da Inglesi e Turchi, da Toscani e Romani, da Russi e lazzari, cadeva. Napoli allora tornava ai Borboni.

I Montesi, nel periodo della repubblica, avevano avuto anche essi l’albero della libertà: un olmo che sorgeva dinanzi alla chiesa dell’Assunta. Dopo il ritorno dei Borboni, ci dice il Parascandola, trascinato a viva forza dalla propria abitazione, veniva impiccato a quell’albero un contadino Montese: Stefano Coppola, il cui nome si trova scritto sulla lapide commemorativa eretta a Procida, in piazza dei martiri.

Il Monte pagava così il suo tributo di sangue alla causa della libertà, della giustizia, del progresso.

Dalla restaurazione borbonica all’autonomia

All’agro Montese si ricollega la fine del decennio francese nel regno di Napoli.

La sera del 19 maggio 1815 Gioacchino Murat, vestito in abito borghese, coi suoi compagni di esilio, raggiungeva a cavallo Miliscola.
La mattina seguente proseguiva per Ischia con due piccoli bastimenti, da dove poi raggiungeva la Corsica e la Francia.
Intanto Ferdinando IV di Borbone alla corona di Sicilia riuniva la corona di Napoli.
Furono suoi ospiti, nel 1819, e visitarono i Campi Flegrei i Sovrani di Austria ed il principe di Metternich.
Questi così scriveva: …certo si stenta ad esprimere la sensazione che si prova calpestando i Campi Elisi… vi trovate nello stesso luogo in cui sbarcò Enea… E’ naturale che una religione tutta sensuale abbia dovuto cercare il suo paradiso in una terra di delizie…”.

Ma i Campi Flegrei ebbero ospiti ben più importanti: a Nisida e a Ischia vennero relegati i liberali Poerio, Settembrini ed altri, perchè mal sopportavano l’assolutismo borbonico.

Suonò la diana del 1860 e Garibaldi, alla testa della rivoluzione, si accinse a realizzare l’unità d’Italia.

Nell’agosto del 1860 gruppi di camicie rosse e di “picciotti” siciliani sbarcavano a Cuma ed a Miliscola, dilagando per i Campi Flegrei.

Nella notte tra il 4 ed il 5 settembre alcune navi borboniche incrociavano nelle acque Montesi, per seguire Francesco II a Gaeta; ma i comandanti non vollero obbedirgli e preferirono portare il loro contributo alla causa dell’Unità. Alla fuga di Francesco II fece seguito nei Campi Flegrei la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia.

La nuova monarchia di Savoia tradì però le aspettative della povera gente e dei lavoratori in generale.
Tradimento che causò malcontento: si ebbero rivolte un po’ dappertutto nell’Italia meridionale; ed anche il Monte nel 1862 fece sentire la sua voce di protesta: il 17 luglio i Montesi manifestarono il loro scontento contro l’impolitica della nuova monarchia sabauda e, per sedare i tumulti, si rese necessario l’intervento dei soldati.

Intanto la popolazione cresceva. Dal centinaio di abitanti del medioevo era passata a mille anime nel 1776, a 3665 nel 1881, a 4000 nel 1893: il progresso era stato notevole e costante.
Venne creata la rotabile per Torregaveta, aperta una farmacia, istituita la scuola; si ebbe l’assenso per il telegrafo e per la posta.

Allora, agli inizi del 1900, i Montesi chiesero al governo di potersi reggere a comune autonomo.

Le giuste aspirazioni dei nostri padri venivano però ostacolate dalla casta privilegiata di Procida, che dal Monte traeva sostanziosi privilegi.

I Montesi volevano dare al nuovo comune il nome di Nuova Cuma”, ma dovettero rinunciarvi per l’opposizione del consiglio comunale di Procida e dovettero accettare l’attuale illogica, antistorica denominazione di “Monte di Procida”.

Il 27 gennaio 1907 ufficialmente il Monte veniva elevato al rango di comune autonomo.

Prof. A. A. Gnolfo

versione html: Pasquale Mancino

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