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Vita e teatro di un grande artista MIMMO BORRELLI

Vita e teatro di Mimmo Borrelli:
«Colleziono voci di una terra triste»

Il drammaturgo e attore vinse il Riccione a 26 anni «Nelle lingue flegree recupero la cantilena dei marrani»

Mimmo Borrelli

 

«Je songhe tutto chello ca nun songhe, je songhe ’a verità fatt’’ i buscie» . Io sono tutto quello che non sono, io sono la verità fatta di bugie. Con questo incipit campano, l’illustre (quasi) sconosciuto Mimmo Borrelli ha sorpreso, qualche anno fa, la giuria del premio di scrittura teatrale più importante d’Italia, uno Strega della drammaturgia: era il premio Riccione e Borrelli era un omone con la barba da adulto, ma aveva solo 26 anni e incantò persino Ronconi.

Il suo testo si intitolava ’Nzularchia(che significa itterizia) e colpì per molti aspetti: primo tra tutti la scelta di un linguaggio localissimo, il dialetto flegreo di Torregàveta, e cioè il paese d’origine dell’autore, che si trova di fronte all’isola di Procida. Una musica arcaica deformata da innesti vari che vanno dal gergo camorristico a straordinarie invenzioni liriche. Nella prefazione alla raccolta, in uscita per le edizioni Ubu, dei primi due testi di Borrelli (c’è anche ’A Sciaveca, che designa la rete a strascico dei pescatori), Gianandrea Piccioli parla di un espressionismo barocco di cui un critico-filologo come Contini sarebbe entusiasta. Lo sarebbe anche dell’ultima opera, La madre. Ed eccolo qua, il creatore visionario del capoclan Pasquale Spennacore, del vendicatore Gaetano, di Tonino ’u Barbone detto ’u Sante, e della sua amata Angela, di Sandokan e della sua vittima Maria Sibilla Ascione.

Non al suo paese, dove ce lo aspetteremmo, ma sul Naviglio Grande di Milano, in casa della sua compagna Simona. Con l’allegria dei suoi trentun anni, Mimmo non sembra somigliare ai colori cupi dei suoi testi: «Tutto è cominciato grazie al mio professore di italiano e latino». Era Ernesto Salemme, fratello del regista Vincenzo: «Lesse i miei primi temi e mi disse che ero bravissimo nei dialoghi. Io allora facevo il calciatore nel Pozzuoli e avevo altri pensieri, ma un incidente mi fermò e caddi in depressione, così cominciai a dedicarmi al teatro, con mio fratello e con Salemme». È il ’ 94 quando il quindicenne Mimmo si iscrive a una vera scuola di drammaturgia. Qualche anno dopo, viene adocchiato da Nello Mascia ed entra nella sua compagnia. Si affina come attore e come cantante, si avvicina alla Compagnia degli Sbuffi di Castellammare, marionette e pupi napoletani: «Giravamo in tre per l’Italia su un carrozzone». Borrelli scava nei linguaggi, nelle tradizioni popolari, raccoglie voci di vecchi contadini, di pescatori, di fattucchiere, di fannulloni, di delinquenti, storie di zingarelle annegate.

Quell’autentico gioiello che è ’Nzularchia viene elaborato tra il 2001 e il 2003: è la storia di un padre, tiranno e criminale, il cui figlio, rifugiato dentro un armadio, lo sorprende mentre stupra la moglie (incinta) e ammazza il suo amante. E questo è solo l’inizio. Ma il collezionista di voci, senza saperlo, era già attivo giovanissimo grazie al capocomicato quotidiano di suo padre e dei suoi amici: «D’estate la nostra cabina sulla spiaggia diventava una specie di casa stabile sul mare. Lì ascoltavamo le storie di mio padre, un grande raccontatore. Vivo ancora con i miei genitori anche perché sono una fonte viva di ispirazione. Certi personaggi sono loro». Tutta roba che sta lì, sotto i suoi occhi. Basta saper guardare e ascoltare: «Pacchione, il pescatore di frodo, vive davvero grazie a un’economia di pesca fatta anche con le bombe artigianali: ha perso la prima mano da ragazzo e l’altra una decina d’anni dopo. Vive senza tempo: al mattino presto lo vedi su una vecchia Graziella il cui manubrio è adattato per appoggiare i moncherini, coi quali riesce a contare i soldi e ad accendersi le sigarette».

La fauna sociale di Torregàveta e la sua storia familiare sono il vero nucleo che ispira Borrelli: «Mio padre appartiene a quella generazione tratta via dalle campagne e messa in fabbrica. Ha fatto l’operaio da quando aveva 14 anni, dopo il lavoro, con il bel tempo faceva il pescatore o il sub, e da ottobre andava a cercare funghi o a raccogliere noci in campagna: era un’economia di raccolta indigena, per arrotondare e sopravvivere. C’era chi lavorava facendo il “cuzzicaro”, cioè faceva il coltivatore di cozze e di frutti di mare e chi coltivava pomodori e ortaggi». Ma c’è anche il fondale di un paesaggio naturale potenzialmente fantastico e però nei fatti degradato dall’incuria e dalla delinquenza: «Per la zona flegrea, il vero vulcano non è il Vesuvio, ma la solfatara di Pozzuoli, un minaccioso cratere sotterraneo che potrebbe anche tornare a esplodere. Bacoli, con le sue acque termali, è stata una zona di villeggiatura al tempo dei Romani e Cuma, con l’antro della Sibilla, è una delle più antiche colonie della Magna Grecia».

Mimmo racconta, tra ironia e sconcerto, che per accedere alla Piscina Mirabilis di Bacoli, un sito archeologico di età augustea, il turista deve chiamare una signora che abita lì e che magari sta preparando il ragù in cucina. «Oggi il litorale è sede del cosiddetto “puzzo ra merda”, perché il depuratore borbonico non funziona più, dunque vi confluiscono tutte le acque nere di Napoli. Se non soffia il Maestrale, la melma ritorna e si forma la “lappa”, un’alga rossa che si sviluppa per il letame e i liquidi industriali. Terribbbile!» . Sulla «lappa» in putrefazione spesso il piccolo Mimmo giocava al pallone con gli amici. Non si salva nessuno, nel «mondo vacante» di Borrelli. Eppure i suoi primi testi teatrali erano opere brillanti impostate su modelli ben noti: «Be’, se sei napoletano ti devi raffrontare con Eduardo, e io ho cominciato scrivendo pochade per teatri amatoriali. La mia vera scrittura però nasceva di notte. Rientravo un po’ depresso dagli spettacoli che facevo e siccome soffrivo di insonnia mi mettevo a scrivere. A un certo punto, venne fuori “Je songhe tutto chello ca nun songhe…”» .

C’è un bambino, in ’Nzularchia, al quale è proibito di piangere e quando proprio non ce la fa più, si rifugia dentro un armadio. «Mio padre mi diceva sempre: non piangere, se no ti do il resto… Vietato farsi vedere debole». In casa, la mamma lo costringe a parlare in italiano, e così il dialetto comincia a suonargli strano. Mimmo ascolta e poi studia per capire i miscugli delle parlate locali. La cantilena strascicata di Bacoli proviene dai marrani che secoli fa vennero mandati lì a bonificare le paludi e a morire. Nel giro di pochi metri, a Cappella, i tratti fonetici sono altri, e prevale la O, zappare si dice «zappò», mangiare si dice «mangiò» , qua è «ccò»: «Erano contadini che parlavano una lingua molto gutturale e chiusa». A Monte di Procida le cose si complicano ancora: «Ci sono tracce di pugliese e dell’inglese degli Scott che vi si stabilirono: gli abitanti erano naviganti e trasportatori di tufo e parlano come se avessero un raffreddore atavico. A volte, a dieci anni, rinunciavo al pallone per stare a sentire i vecchietti. Scrivendo, ho capito che la mia parola madre era quel miscuglio di eredità linguistiche, erano quelle della mia gente le corde più sicure per calarmi nel pozzo della scrittura: ho scoperto così che per l’espressività scenica quel dialetto contiene tutto: materia realistica e liricità».

In questa strana lingua, Borrelli mette in scena, ne La madre, una sorta di Medea claustrofobica: «Volevo affrontare la figura femminile e la questione della maternità e del parto. Ancora una volta mi ha aiutato la realtà: a Bacoli c’era una donna che durante la gravidanza non ha mai smesso di bere e soprattutto quando è nato suo figlio, credendo di non poterlo allattare al seno, l’ha cresciuto con il vino. Ne venne fuori una creatura deformata. L’altra storia che mi è venuta incontro è quella di un contadino delle mie parti che coltivava pomodori pompati con gli estrogeni: in parte li mangiavano in famiglia e a sua figlia, a sei anni… Storie di una terra che sprofonda». Che a Bacoli ci fosse un alto tasso di tumori, Borrelli lo sapeva forse prima di Saviano, così come conosceva la storia di Sandokan: «I camorristi pensano di essere i re della zona senza mai pensare al futuro. Nelle mie zone il passaggio dalla non criminalità alla criminalità è un passo: il salumiere ti fa lo sconto perché hai fatto finta di non vedere che pagava il pizzo, e tu diventi complice senza saperlo. Certe volte ti chiedi perché un amico dell’infanzia ha preso brutte strade e tu no. Ma io racconto l’umanità per cercare di migliorare il mio paese: e a volte mi accusano di avere troppa pietà dei malviventi. Ma non c’è carnefice che non sia stato vittima. E andare a cercare le colpe originarie non è facile, perché una pianta cresciuta in un fiume di melma cresce sempre male».

Paolo Di Stefano
28 febbraio 2011  da www.ilcorrieredellasera.it

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