Nei primi decenni del 1600 la nostra collinetta montese si presentava selvatica, incolta e pressoché deserta perché adibita a riserva di caccia per i regnanti napoletani.
Nel 1642, la Mensa arcivescovile di Napoli, in seguito alla favorevole risoluzione della vertenza legale con il Regio Fisco per il possedimento del Monte, decise di concedere in enfiteusi vari lotti di terreno ai braccianti procidani.
L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su un fondo di proprietà altrui, secondo il quale, il titolare (enfiteuta) ha la facoltà di godimento pieno, ma per contro, deve migliorare il fondo stesso e pagare inoltre al proprietario un canone annuo in denaro o in derrate.
La Curia napoletana, guidata dal Cardinale Ascanio Filomarino, intendeva in tal modo consolidare il possesso del territorio montese e nello stesso tempo trasformarlo in un luogo ripulito e produttivo.
L’esigenza della Curia ben si sposava, in quella fase, con gli interessi dei coloni isolani, ma il passaggio delle concessioni avvenne, tuttavia, con estrema lentezza a causa dell’indigenza dei braccianti procidani; tra i primi concessionari non vi erano infatti né borghesi, né commercianti, né professionisti.
La situazione si aggravò ulteriormente durante la terribile epidemia di peste del 1656 che spazzò via più del 50% della popolazione del Regno e quindi la Curia si trovò costretta a ridurre progressivamente le dimensioni degli apprezzamenti in enfiteusi e ad abbassare i canoni d’affitto per invogliare ed agevolare i coloni.
Con la concessione in enfiteusi dei terreni iniziò il vero e proprio insediamento sul Monte, dapprima come pendolarismo giornaliero, poi come residenzialismo stagionale fino alla creazione di stanziamenti permanenti a partire dalla prima metà del XVIII secolo.
I primi coloni che arrivarono sul Monte iniziarono a piantare principalmente alberi da frutta come limoni, arance, mandarini, pesche, pere, mele e soprattutto la tanto amata vite, inizialmente coltivata in grande quantità nella zona costiera del paese maggiormente esposta a sud ed alle brezze marine e che tutt’oggi è conosciuta come località “La Vite” (abbèscio ‘a Vite) cioè il tratto finale di via Roma.
I contadini procidani scoprirono ben presto che il vino prodotto sulla borgata Monte, grazie al fertilissimo terreno, alla maggiore elevazione, all’esposizione ottimale ed al favorevole microclima, era decisamente migliore del vino prodotto sull’isola con le stesse uve, le stesse tecniche, gli stessi metodi e strumenti.
E fu proprio questo il principale motivo scatenante che richiamò man mano sempre più coloni e braccianti procidani verso il Monte in terraferma.
Si passò così dai 15 fuochi (famiglie) cioè circa 75 persone del 1662, non tutti residenti stabili, alle 264 ditte catastali (proprietari del bene) del 1750. Nel 1776 sul nostro Monte vivevano stabilmente circa 1.000 persone e nel 1829 se ne contavano 1.500.
Il vino prodotto sul Monte divenne ben presto conosciuto ed apprezzato in tutta Napoli e provincia e la richiesta superava sempre di gran lunga la produzione. Il vino montese inizialmente viaggiava esclusivamente per mare all’interno di barili di legno (varrili) di 43,62 litri ed in piccole botti di circa 250 litri (meza votta) trasportati su piccole imbarcazioni a vela, dapprima via Procida ed in seguito direttamente da Torrefumo verso Pozzuoli e soprattutto verso la città di Napoli. Successivamente, grazie anche all’ampliamento della rete stradale, per contenere i costi e comunque nei periodi di mare agitato, il vino veniva trasportato anche su carrette trainate da asini, buoi e cavalli. Su un carretto si riuscivano a caricare fino a 24 barili.
Nelle annate buone, da un moggio (nu’ muoio) di terreno montese, corrispondente a circa 3.365 mq, i nostri antenati contadini riuscivano ad ottenere fino a 3 botti di vino, oltre a tantissimo vinello e aceti vari. Ogni botte poteva contenere fino a 492 litri. Si producevano principalmente aglianico, piedirosso (pière palùmme) e falanghina.
All’inizio del 1815, con la restaurazione dei Borboni a Napoli terminò le sue pubblicazioni il Monitore delle Due Sicilie, cui successe, il 23 maggio 1815, il Giornale del Regno delle Due Sicilie. Questo quotidiano, destinato a durare fino al 1860, era in pratica il portavoce del governo napoletano del quale pubblicò gli atti ufficiali. Ma questo importante stampato conteneva anche piccoli ed interessanti annunci economici e nel numero di lunedì 31 marzo 1817 comparve, per la prima volta, il seguente annuncio:
“Nella cantina, Strada porto n.10, detta del Romano, si trovano vendibili a prezzi discreti ottimi vini del Monte di Procida, Forio d’Ischia, di Somma e di Palma economici“.
Di annunci simili ne seguiranno poi tantissimi nel corso degli anni: cantine, ristoratori, magazzini e rivenditori di vini promuovevano i lori prodotti mettendo sempre in evidenza la disponibilità del vino di Monte di Procida. Eccone alcuni esempi:
– venerdì, 5 settembre 1817
“Vico Santa Maria dell’Aiuto n.18, presso santa Maria la Nova, vendonsi eccellenti vini del Monte di Procida a barili“;
– lunedì, 15 settembre 1817
“Nel magazzino n.18, strada della Madonna dell’Aiuto, si trovano vendibili a prezzi discreti, ed a barili, ottimi vini del Monte di Procida, vino vecchio in bottiglie ed aceto aromatico“;
– sabato, 11 luglio 1818
“Nella cantina, Largo Mercatello n.72, si vendono, a prezzi discreti, vini del Monte di Procida di ogni qualità“.
Ma che prezzi aveva il vino montese?
In un numero del Giornale delle Due Sicilie dell’anno 1821 comparve il seguente annuncio corredato di prezzi:
“Nell’antico magazzino di vino e ristoratore in Toledo, strada porta Carrese di Montecalvario n.86-87-88, si trovano vendibili i generi seguenti vini in barile di
Posillipo ducati 1,50
Gragnano ducati 2,40
Lagrima della Torre del Greco ducati 3,00
S.Eufemia ducati 4,20
Monte di Procida ducati 4,20”
Insomma il vino di Monte di Procida era il più costoso con prezzi anche doppi o quasi triplicati rispetto ad altri famosi ed ottimi vini del Regno. Solo il S.Eufemia era venduto allo stesso prezzo, ma su di esso gravavano le non trascurabili spese di trasporto dalla lontana provincia di Reggio Calabria fino a Napoli.
Quanto fosse buono e genuino il vino prodotto sulla collinetta montese lo scopriamo attraverso la letteratura dell’epoca. Ad esempio nel “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli” pubblicato da Lorenzo Giustiniani nell’anno 1804 si legge:
“Tanto il vino bianco, che il rosso, per l’odore, squisitezza e sapore non cedono amendue le dette produzioni a qualsivoglia altro pregiatissimo vino di questo nostro felicissimo Regno, celebrato a ragione da tutti gli antichi scrittori. Secondo la più o meno attenzione che usasi nel premere le uve su del monte istesso, acquista di pregio e squisitezza. Depurato poi per lo corso di due anni rendesi vie più amabile e proficuo allo stomaco. Nelle bottiglierie che sono in Napoli non si dà niente sincero“.
E ancora: “…questo dilettevole monte è feracissimo di ottime produzioni e specialmente per quella del vino e bianco e rosso, che supera in eccellenza quelle di tutti gli altri luoghi del circondario. Ma devesi avere da mano amica, prima di passare in potere de’ nostri negozianti.“
Un elogio chiaro, preciso che fa capire quanto fosse rinomato ed esclusivo il nostro vino. Ma oltre alle lodi è bene soffermarci attentamente anche sull’ultima frase del Giustiniani dalla quale si può facilmente intuire come alcuni cantinieri napoletani usavano allungare il costosissimo vino montese con altri vini di minor pregio e costi per rivenderlo come vino tipico di Monte di Procida a prezzi più alti. Altri rivenditori, probabilmente più onesti, per evidenziare l’originalità e la purezza del vino del Monte che proponevano erano soliti scrivere in bella vista: “Qui si vendono vini del Monte di Procida schietti di prima mano a conto del proprietario“.
Il vino montese era così unico e pregiato che veniva utilizzato come metro di paragone per la qualità di altri vini prodotti nel Regno. Nella pubblicazione “Osservazioni del Barone A. Ricca sull’antica Calvi (BN)” il barone per esaltare efficacemente il vino prodotto a Calvi lo confronta con quello del Monte e non potendo certo dichiararlo migliore, afferma che fosse pressoché uguale:
“…posso io di ciò esservi di sicura testimonianza, dappoichè sono ormai 23 anni che una mano industriosa si è qui ingegnata di applicarsi annualmente alla manifattura di una piccola quantità di vino, il quale apprestato a forestieri o di buon gusto, ovvero d’alto rango, è stato il medesimo presso che uguale al migliore del Monte di Procida riconosciuto“.
È invece stata una vera sorpresa scoprire che il vino prodotto sui nostri terreni faceva parte della normale dotazione di bordo delle navi della Marina napoletana di Gioacchino Murat, nominato Re di Napoli da suo cognato Napoleone Bonaparte nel 1808.
Ma attenzione, a bordo non era utilizzato come bevanda alcolica.
Su queste navi, infatti, insieme alle radici di calamo aromatico, ipecacuana, liquirizia, rabarbaro esotico, corteccia di cannella e di china, fiori di camomilla, oppio, seragna, manna e spezie sudorifere indigene trovava posto anche il vino del Monte di Procida da utilizzare esclusivamente come prodotto medicinale.
In effetti, nella pubblicazione scientifica “Flora medica della provincia di Napoli” del 1841, a proposito del vino si sosteneva che:
“…il vino è un rimedio ristorante il sistema nervoso ed in tutte quasi le febbri adinamiche, ed ancora più nella inedia. Promuove la traspirazione, se ne fa uso nel catarro pulmonare”. E concludeva consigliando specificatamente: “Si raccomanda vino rinomato come il vino del Monte di Procida“.
Da terra incolta ed anonima, Monte di Procida, divenne così famosa in tutto il Regno di Napoli per i suoi eccellenti vigneti, per il suo straordinario vino che i montesi hanno prodotto e venduto in grande quantità fino agli anni ’70 del 1900, quando dal Monte il vino arrivava a Napoli con auto, furgoni e camion. Spesso erano gli stessi cantinieri napoletani a venirlo a ritirare direttamente dai nostri contadini per accaparrarsi la migliore qualità, evitare falsificazioni e contenerne i costi.
Il grande successo del vino montese trova conferma nella storia, nella cultura e tradizione napoletana prendendo posto nei detti tipici: “Percòca fracèta e vino ro’ Monte ‘e Procida“; nelle canzoni e nelle poesie: “Vino d’ ’o Monte ‘e Procèta straròce“; nella letteratura, nei libri di Matilde Serao: “All’erta sentinella!” del 1889 ed “Il paese della cuccagna” del 1891.
Generazioni di umili ed abili contadini montesi, con sacrificio, dedizione e sapienza si sono susseguite nel tempo producendo, riconosciutamente, per circa tre secoli, il miglior vino di tutto il Regno di Napoli che, partendo dalla sconosciuta terra della borgata Monte del comune di Procida, arrivava fino alle ricche e sfarzose tavole della nobiltà, dell’alto clero e dei sovrani stessi.
Di quella terra e di quei vigneti, oggi, sul Monte ne è rimasto veramente poco; i contadini sono quasi del tutto scomparsi e di vino se ne produce pochissimo; a parte qualche rara iniziativa, in genere si vendemmia e vinifica per il solo consumo personale.
…made with <3
— Pasquale Mancino
