Ci sono tante notti speciali durante l’anno. Ma poche, per i nostri antenati, erano magiche come quella di San Giovanni. La notte tra il 23 e il 24 giugno. Quella in cui si diceva che i confini tra il mondo visibile e quello invisibile diventassero sottilissimi. Una notte piena di mistero e di riti che potevano cambiare il destino di chi li eseguiva.
Molti di questi riti sono antichissimi, vengono da tempi pagani. Non a caso, il 24 giugno cade pochi giorni dopo il solstizio d’estate. Il momento in cui il sole è più forte. Per i popoli antichi, era la notte delle energie, di vita, di natura, di fertilità.
Poi arrivò il Cristianesimo. Ma le vecchie usanze non sparirono. Si mescolarono con la festa di San Giovanni Battista. Il santo che segnava l’inizio di un nuovo ciclo. Le erbe raccolte in quella notte? Si pensava avessero poteri speciali. Così come la rugiada. E i riti con il fuoco e il metallo.
A Monte di Procida, terra di forte cultura marinara e contadina, queste tradizioni hanno trovato terreno fertile e trasmesse di generazione in generazione, in particolare dalle donne, che ne sono sempre state le principali custodi. Oggi sopravvivono come memoria viva di un tempo in cui magia e quotidianità si mescolavano in modo indissolubile.
Nella nostra società tradizionale, profondamente legata al mare e ai ritmi della natura, le donne vivevano l’amore in modo passivo. I matrimoni venivano decisi dai genitori, per motivi di convenienza o di alleanze familiari, e raramente l’amore poteva sbocciare liberamente. Per questo motivo, la notte di San Giovanni rappresentava per molte ragazze e giovani donne un’occasione preziosa per interrogare il futuro, cercando, attraverso la magia popolare, di conoscere il volto del destino o magari di influenzarlo.
Uno dei rituali più suggestivi, coinvolgeva l’albume d’uovo. L’uovo, simbolo universale di vita e rinascita, veniva “sacrificato” per rivelare i segreti del futuro. Ma non bastava rompere un uovo qualsiasi: doveva provenire da una gallina nera, essere stato deposto in giornata, e venire rotto rigorosamente con la mano sinistra. Così, la notte di San Giovanni, le donne rompevano un uovo fresco e ne versavano l’albume in un bicchiere colmo d’acqua, che veniva poi esposto sul balcone o sul davanzale, sotto il chiaro di luna. Durante la notte, la rugiada e l’aria solstiziale modellavano l’albume, che all’alba assumeva forme misteriose. Le ragazze, al risveglio, osservavano quelle figure fluttuanti, cercando di cogliervi segni del proprio futuro: un anello preannunciava nozze imminenti, una barca un viaggio, un cuore un nuovo amore, una croce suggeriva prove da superare, mentre forme mostruose o indecifrabili erano presagio di amori impossibili o dannosi. Era un rito intimo, quasi un dialogo tra la donna e le forze invisibili della natura.
Più complesso e carico di tensione emotiva era invece il rito dello scioglimento del piombo. Questo veniva praticato da donne esperte, spesso anziane dette “re cchiummajole” (le piombarole), che sapevano maneggiare e leggere i segni lasciati dal metallo. Il piombo veniva fuso sul fuoco, in un pentolino di rame o ferro, finché non diventava liquido e brillante. A quel punto veniva fatto colare rapidamente in una ciotola di acqua fredda. Le forme che si solidificavano venivano poi interpretate: superfici lisce e armoniose indicavano fortuna, figure contorte o frastagliate suggerivano ostacoli o influssi negativi da affrontare. Le ragazze, con il fiato sospeso, ascoltavano il responso, affidando ai metalli fusi i propri desideri e timori.
Tra i riti, oggi meno conosciuti, c’era quello della prova della fava. Le ragazze in età da marito prendevano tre fave secche: una intera, una pelata e una a metà, le avvolgevano in un fazzoletto e le ponevano sotto il cuscino prima di addormentarsi. Al mattino, ad occhi chiusi, ne estraevano una a caso. Il significato era chiaro: se la fava era intera, il matrimonio sarebbe stato felice e prospero; se era pelata, indicava un amore infelice o non corrisposto; se era a metà, il futuro sentimentale appariva incerto e ostacolato. Era un gesto carico di emozione, in cui le speranze e i timori del cuore femminile si concentravano in un piccolo seme.
Un rito semplice e carico di magia è la preparazione della cosiddetta acqua di San Giovanni. Come si fa? Semplice. Dopo il tramonto, si raccolgono erbe e fiori di campo. Si immergono in una bacinella d’acqua. Poi si lascia tutto all’aperto, per tutta la notte. Durante queste ore, l’acqua assorbe non solo la rugiada della notte più carica di energia dell’anno, ma anche la forza e il profumo delle erbe e dei fiori. Al mattino del 24 giugno, ci si lava mani e viso con quest’acqua speciale. Un piccolo gesto, antico e propiziatorio. Per richiamare fortuna, salute e, perché no, anche un pizzico d’amore.
Ma la notte di San Giovanni non era soltanto dedicata all’amore. Era anche il tempo ideale per proteggersi da forze oscure. Si credeva che proprio in quelle ore, le “Janàre”, le vecchie streghe della tradizione campana, si aggirassero nei vicoli e nei campi. Le donne allora mettevano rametti di ruta sopra le porte e le finestre, spargevano sale grosso negli angoli della casa e preparavano sacchettini di stoffa rossa con dentro erbe, sale e fili intrecciati, da appendere o portare addosso come amuleti.
Tra i riti più usati per “ripulire” le energie negative vi era quello dello scioglimento dello zolfo. Le donne scioglievano lo zolfo puro su una piccola fornacella e lo versavano in acqua fredda. Le forme che ne risultavano venivano attentamente osservate: se apparivano regolari e morbide, si diceva che la persona era libera da influssi malefici; se invece si formavano punte, spigoli, nodi o grovigli, significava che vi era stato un malocchio o un’invidia. Ma proprio quel rito aveva la forza di sciogliere ogni negatività.
Così, le nostre donne, protagoniste silenziose e forti della vita comunitaria, trovavano nella notte di San Giovanni uno spazio tutto loro, in cui interrogare il destino, proteggere i propri cari e affermare, almeno per una notte, il proprio potere segreto.
Oggi questi riti sopravvivono più nei racconti degli anziani che nei gesti quotidiani. Eppure, nella memoria collettiva, la notte di San Giovanni resta ancora la notte delle streghe e dei cuori che sognano.
Pasquale Mancino
