Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025 gli elettori italiani sono chiamati alle urne per cinque referendum popolari abrogativi. Si voterà in contemporanea ai ballottaggi delle elezioni amministrative in molte città, con seggi aperti domenica dalle 7:00 alle 23:00 e lunedì dalle 7:00 alle 15:00. Affinché ciascun referendum sia valido è necessario il raggiungimento del quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto. In ciascun quesito referendario viene chiesto agli elettori se vogliono abrogare (cioè cancellare) una specifica norma di legge.
Di seguito spieghiamo in modo semplice i cinque quesiti – quattro dei quali riguardano il tema del lavoro e uno la cittadinanza – illustrando il testo ufficiale, l’argomento, e cosa comporta votare SÌ oppure NO per ognuno.
Quesito 1: Reintegro in caso di licenziamento illegittimo (Jobs Act)
Testo ufficiale del quesito:
«Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»
Argomento: questo referendum riguarda le tutele in caso di licenziamento illegittimo, cioè un licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo. In particolare, si propone di abrogare integralmente il decreto legislativo 4 marzo 2015 n.23, noto come uno dei provvedimenti attuativi del Jobs Act (la riforma del lavoro del governo Renzi del 2015). Tale decreto ha introdotto il cosiddetto contratto a tutele crescenti, eliminando per i nuovi assunti la tutela del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (prevista dal celebre articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori) e sostituendola con un indennizzo economico predeterminato. Oggi, dunque, un lavoratore assunto dopo il 2015 che venga licenziato ingiustamente non ha in genere diritto a riottenere il proprio posto, ma solo a un risarcimento calcolato in base agli anni di servizio. L’obiettivo dei promotori del referendum è ripristinare la “tutela reale” del reintegro per questi lavoratori, cancellando la norma del Jobs Act e facendo tornare applicabili le disposizioni precedenti più favorevoli al lavoratore.
Se vince il SÌ: verrebbe abrogato il decreto Jobs Act del 2015, eliminando le norme che oggi impediscono il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. In pratica, tutti i lavoratori (anche quelli assunti negli ultimi anni con contratto a tutele crescenti) tornerebbero ad avere diritto alla reintegra, e non solo al risarcimento in denaro, quando un giudice riconosce che il licenziamento è avvenuto senza una giusta causa. Secondo i promotori, questo ristabilirebbe un equilibrio di potere più giusto tra datore di lavoro e dipendente, dissuadendo le aziende dai licenziamenti arbitrari e restituendo ai lavoratori la “libertà di non essere precari” e di non essere ingiustamente allontanati. La CGIL (principale sindacato promotore) sostiene che così si cancellerebbero leggi “sbagliate” che negli ultimi anni hanno reso i lavoratori “meno liberi”, e si ristabilirebbe una tutela dei diritti simile a quella esistente prima del 2015.
Se vince il NO: resta in vigore l’attuale disciplina introdotta dal Jobs Act. Nulla cambierebbe quindi in caso di licenziamento illegittimo: il lavoratore continuerebbe ad avere diritto soltanto a un indennizzo economico (l’importo va da un minimo a un massimo stabilito per legge in base all’anzianità di servizio), ma senza poter ottenere la riassunzione presso la stessa azienda. I contrari al referendum ritengono questa soluzione più adatta all’economia odierna: secondo molte associazioni imprenditoriali, il Jobs Act ha reso più facile assumere grazie a maggior flessibilità e ha contribuito ad aumentare i contratti a tempo indeterminato. Essi avvertono che tornare alle vecchie regole renderebbe il mercato del lavoro più rigido e incerto per le imprese, potenzialmente frenando le nuove assunzioni e anzi incentivando il lavoro sommerso (“in nero”) per evitare i vincoli troppo stringenti. In altre parole, per gli oppositori un Sì comporterebbe un passo indietro di decenni, ripristinando normative del secolo scorso “che non hanno più ragione di esistere” e rischiando di danneggiare gli stessi lavoratori che si intenderebbe tutelare.
Contesto: questo quesito è uno dei quattro promossi dalla CGIL sul tema del lavoro. La raccolta firme ha avuto un ampio sostegno (oltre 4 milioni di firme depositate in Cassazione a luglio 2024, segno di un forte interesse soprattutto nei settori sindacali. Sul piano politico, la campagna per il Sì è appoggiata dai principali partiti di opposizione di sinistra/centrosinistra (Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi-Sinistra e altri, mentre il governo di centrodestra e organizzazioni degli imprenditori bocciano il referendum. Questi ultimi lo considerano “fuori tempo massimo”, dato che il Jobs Act risale a dieci anni fa, e sottolineano che nel frattempo il mondo del lavoro è cambiato e le imprese affrontano altre priorità (come il costo dell’energia e la mancanza di manodopera qualificata). Esponenti di area liberale (come il gruppo Europa Radicale e Italia Viva) hanno costituito un comitato per il No, definendo i referendum della CGIL “contro il lavoro” e sostenendo che cancellare il Jobs Act sarebbe dannoso per i lavoratori stessi, oltre che un attacco simbolico al ruolo del sindacato che lo approvò.
Quesito 2: Indennità di licenziamento nelle piccole imprese
Testo ufficiale del quesito:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?»
Argomento: questo quesito riguarda la tutela dei lavoratori nelle piccole imprese in caso di licenziamento senza giusta causa. Oggi, le aziende con fino a 15 dipendenti (piccole imprese) non sono soggette all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: in caso di licenziamento illegittimo non è previsto il reintegro, ma solo un’indennità economica risarcitoria. Tale indennità, disciplinata dalla legge n.604/1966 art.8, è attualmente fissata dalla norma in un importo minimo e massimo (da poche mensilità fino a un massimo di 6 mensilità di stipendio, con qualche aumento per anzianità). In pratica, anche se un dipendente di una piccola azienda viene licenziato ingiustamente, il giudice può solo ordinare al datore di pagargli un risarcimento che per legge non supera una certa soglia. Il referendum propone di eliminare questi tetti massimi sull’indennità, cancellando dalla legge le parole che fissano il limite di 6 mensilità (e le relative maggiorazioni fino a 10 o 14 in alcuni casi). L’idea dei promotori è che, senza un limite prestabilito, il giudice possa determinare liberamente un risarcimento adeguato al danno subito dal lavoratore, aumentando la tutela di chi lavora nelle piccole imprese e deterrendo maggiormente i licenziamenti illegittimi anche in aziende sotto i 15 dipendenti.
Se vince il SÌ: verrebbero cancellati i limiti legali all’indennità risarcitoria per i licenziamenti senza giusta causa nelle imprese fino a 15 addetti. In assenza del tetto di 6 mensilità, il giudice del lavoro avrebbe piena discrezionalità nel decidere l’ammontare del risarcimento, in base alla gravità del licenziamento illegittimo e alle circostanze (anzianità di servizio, dimensioni dell’azienda, ecc.). Per i sostenitori del Sì, questa riforma renderebbe meno “conveniente” per un piccolo datore di lavoro liberarsi arbitrariamente di un dipendente, perché il costo dell’operazione potrebbe essere ben superiore alle poche mensilità oggi previste. Inoltre si eliminerebbe una disparità di trattamento: attualmente un lavoratore ingiustamente licenziato in una grande azienda può ottenere reintegro o indennizzi sostanziosi, mentre in una micro-impresa il risarcimento è limitato a poche mensilità; col Sì anche nelle piccole aziende ci sarebbero conseguenze economicamente rilevanti per il datore che licenzia senza giusta causa, a tutela dei dipendenti.
Se vince il NO: rimangono in vigore le norme attuali. Di conseguenza, nelle imprese sotto i 15 dipendenti continuerebbe ad applicarsi l’indennità risarcitoria con un limite massimo predeterminato (6 mensilità di stipendio, salvo piccoli incrementi per lunga anzianità). Votare No significa quindi mantenere l’assetto vigente, in cui il datore di lavoro di una piccola azienda conosce a priori l’esborso massimo in caso di licenziamento illegittimo. Chi è contrario all’abrogazione ritiene che questi limiti siano necessari per tutelare le piccole imprese, che altrimenti rischierebbero di dover affrontare costi imprevedibili e potenzialmente molto elevati. Alcuni temono che senza un tetto chiaro, la prospettiva di indennizzi illimitati possa rendere i datori più cauti nell’assumere personale o addirittura scoraggiare l’imprenditoria nelle realtà minori. Le associazioni artigiane e delle PMI sostengono che il quadro attuale – seppur con indennizzi modesti – rappresenta un compromesso sostenibile: abolire il limite esporrebbe le piccole aziende a cause di lavoro dal costo incalcolabile, mettendone a rischio la sopravvivenza, soprattutto per quelle con bilanci esigui. I proponenti del No inoltre ricordano che un analogo referendum nel 2003 cercò di estendere le piene tutele dell’art.18 anche alle piccole imprese, ma fallì il quorum: segno, a loro avviso, che la maggioranza dei cittadini riconosce la specificità delle micro-imprese e non intende equipararle alle grandi sul piano degli obblighi in caso di licenziamento.
Contesto: anche questo quesito fa parte dei referendum sul lavoro promossi dalla CGIL, focalizzati a rafforzare le tutele dei lavoratori. La questione delle piccole imprese è storicamente delicata: l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori dal 1970 escluse volutamente le aziende sotto una certa soglia dimensionale, per non gravarle eccessivamente. I sindacati da anni denunciano però una zona grigia di minor tutela per milioni di lavoratori di piccole aziende, e con questo referendum puntano almeno ad aumentarne i risarcimenti. La richiesta di Sì è sostenuta dalle sinistre e dai movimenti per i diritti del lavoro, mentre molti politici moderati e imprenditori propendono per il No. Confindustria e altre associazioni datoriali hanno espresso contrarietà, affermando che le regole attuali non necessitano di modifiche: “non si riscontra un problema legato ai reintegri” nelle realtà aziendali odierne, ha dichiarato un rappresentante, aggiungendo che sembra “di voler tornare a normative del secolo scorso” poco adatte al contesto attuale. I favorevoli replicano che dignità e diritti del lavoratore non devono dipendere dal numero di colleghi in organico, e che una tutela effettiva contro i licenziamenti illegittimi dev’essere garantita a tutti. Va notato che questo referendum non introdurrebbe comunque il reintegro automatico nelle piccole imprese (cosa che richiederebbe una legge attiva e non un’abrogazione): l’ambito resterebbe quello del risarcimento economico, ma con maggiore libertà di giudizio caso per caso.
Quesito 3: Contratti a termine e riduzione del precariato
Testo ufficiale del quesito:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti” e alle parole “b bis)”; comma 1-bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “in caso di rinnovo” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 1, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente”?»
Argomento: questo quesito interviene sulle norme che regolano i contratti di lavoro a tempo determinato, con l’obiettivo dichiarato di ridurre il lavoro precario e favorire contratti stabili. In particolare, il quesito mira ad abrogare parti specifiche del decreto legislativo 15 giugno 2015 n.81 (anch’esso parte del pacchetto Jobs Act) che hanno reso più flessibile l’uso dei contratti a termine. Attualmente, grazie alle modifiche degli ultimi anni, un datore di lavoro può assumere una persona con un contratto a termine senza indicare una causale (motivazione) per una durata fino a 12 mesi; il contratto può poi essere prorogato o rinnovato fino a una durata massima di 24 mesi complessivi, ma oltre i 12 mesi è richiesta la presenza di specifiche causali previste per legge o dalla contrattazione. In sintesi, oggi il primo anno di contratto a termine è liberalizzato, mentre per prolungare oltre un anno servono motivi oggettivi (esigenze tecniche, organizzative o sostitutive). Queste regole, introdotte nel 2015 e parzialmente modificate nel 2018, hanno ampliato la possibilità per le aziende di utilizzare contratti temporanei. I promotori del referendum le considerano però fattori di precarietà: abrogando quelle parti di legge, intendono ripristinare vincoli più stringenti (come esistevano prima), in modo da limitare l’abuso dei contratti a termine a ripetizione e incentivare le assunzioni a tempo indeterminato.
Se vince il SÌ: verrebbero eliminate le disposizioni che consentono contratti a tempo determinato prolungati senza causale fino a 12 mesi. In pratica, si tornerebbe a una normativa più restrittiva: la durata massima di un contratto a termine senza giustificazione potrebbe ridursi (da 12 a, presumibilmente, 0 mesi, cioè sarebbe sempre richiesta una causale sin dall’inizio, salvo interventi legislativi successivi), e comunque sarebbe più difficile superare i 12 mesi totali di rapporto a termine. L’intento del Sì è ridurre la precarietà: i datori di lavoro, non potendo più tenere un lavoratore precario per uno o due anni senza motivazione, sarebbero spinti o ad assumerlo in pianta stabile prima, oppure a limitarne l’utilizzo temporaneo a esigenze davvero eccezionali. Secondo i sostenitori, negli ultimi anni la flessibilità si è tradotta in abuso di contratti brevi e rinnovati, creando incertezza cronica per molti lavoratori; un Sì al referendum rimuoverebbe quelle “scappatoie” normative che hanno reso più semplice ricorrere al tempo determinato, contribuendo a favorire l’occupazione stabile. In sostanza, il Sì vorrebbe “ristabilire vincoli più rigidi per l’utilizzo del lavoro a tempo determinato”, riportando la regola generale che un contratto a termine debba avere causali chiare e durata limitata.
Se vince il NO: resta tutto invariato nella legislazione sui contratti a termine. Le aziende continueranno a poter stipulare liberamente contratti temporanei fino a 1 anno senza specificarne il motivo, e a prorogare o rinnovare il termine fino a 24 mesi complessivi in presenza delle condizioni previste (ad esempio esigenze produttive temporanee). I contrari al referendum sostengono che le norme attuali già rappresentano un bilanciamento tra flessibilità per le imprese e tutela per i lavoratori, soprattutto dopo le modifiche introdotte nel 2018 (che reintrodussero l’obbligo di causali oltre i 12 mesi). Eliminare le parti indicate rischierebbe di creare maggiore rigidità e burocrazia nelle assunzioni a termine. Dal punto di vista delle imprese, la possibilità di attivare un contratto breve senza vincoli per un anno è utile per far fronte a picchi di lavoro o per valutare nuove risorse prima di un’eventuale stabilizzazione. Un Sì che cancellasse queste possibilità potrebbe indurre alcune aziende a non assumere affatto o a farlo in nero, temono gli oppositori, qualora necessitino di lavoratori temporanei ma non vogliano impegnarsi subito in contratti a lungo termine. Confindustria, ad esempio, ha avvertito che la reintroduzione di regole troppo stringenti “renderebbe il mercato più ingessato” e c’è il rischio che, eliminando la flessibilità, si alimenti il ricorso al lavoro sommerso. In sintesi, per il fronte del No le norme attuali sui contratti a termine – pur perfettibili – non vanno abolite, perché garantiscono un grado di elasticità indispensabile a molti settori senza aver prodotto un aumento dei contratti precari (secondo alcuni dati, la quota di lavoratori a tempo determinato sul totale non è esplosa dopo il Jobs Act).
Contesto: il tema del precariato è molto sentito in Italia, dove la percentuale di giovani con contratti a termine o forme atipiche è elevata. La CGIL e gli altri promotori presentano questo referendum come un modo per “ridare dignità e stabilità” ai lavoratori, soprattutto alle nuove generazioni spesso intrappolate in una sequenza di stage e contratti brevi. Lo slogan spesso usato è la richiesta di “lavoro stabile”. Dalla parte opposta, organizzazioni imprenditoriali e partiti liberali avvertono che irrigidire troppo le regole sui contratti rischia di peggiorare la situazione occupazionale, scoraggiando le assunzioni regolari. In Parlamento erano state discusse proposte di riforma per limitare i rinnovi dei contratti a termine, ma i promotori del referendum lamentano che non si sia intervenuti a sufficienza: per questo chiedono agli elettori un segnale chiaro per una stretta sulla precarietà. Va ricordato che qualsiasi modifica effettiva dovrà poi eventualmente essere attuata dal legislatore: abrogando parti specifiche del decreto 81/2015, alcune restrizioni più severe (precedenti al Jobs Act) tornerebbero automaticamente in vigore, mentre per altri aspetti si potrebbe creare un vuoto normativo da colmare con nuove leggi. In ogni caso, il risultato referendario avrebbe un forte valore di indirizzo politico sul futuro delle politiche del lavoro.
Quesito 4: Responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro
Testo ufficiale del quesito:
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?»
Argomento: il quarto quesito riguarda la sicurezza sul lavoro negli appalti e, nello specifico, la responsabilità in solido (responsabilità solidale significa condivisa) delle diverse aziende coinvolte quando avviene un infortunio. La norma bersaglio è l’art.26 comma 4 del Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (d.lgs. 81/2008). In generale, quando un’azienda affida un lavoro in appalto a un’altra ditta, entrambe devono cooperare per garantire la sicurezza dei lavoratori. La legge prevede già una responsabilità condivisa del committente (chi affida il lavoro) e dell’appaltatore (chi esegue) per gli infortuni sul lavoro, ma con un’eccezione: proprio il comma 4 stabilisce che “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”. In altre parole, oggi il committente non risponde in solido degli infortuni che derivano dai rischi tipici del mestiere svolto dall’appaltatore. Ad esempio, se un’azienda appalta a una ditta esterna dei lavori ad alta specializzazione (poniamo, lavori elettrici), il rischio elettrico è considerato “specifico” dell’attività dell’appaltatore: se accade un incidente legato a quel rischio, la responsabilità ricade solo sull’appaltatore, mentre il committente ne è esente per legge. Il referendum propone di eliminare questa esenzione di responsabilità, abrogando proprio la frase che la contiene nel comma 4 dell’art.26.
Se vince il SÌ: viene eliminata l’attuale esclusione di responsabilità per il committente nei casi di infortuni dovuti a rischi specifici dell’attività dell’appaltatore. Ciò significa che il committente (e l’eventuale appaltatore principale) risponderebbe sempre in solido assieme all’appaltatore/subappaltatore per i danni subìti da un lavoratore in appalto, senza più esenzioni. Agli occhi dei promotori, questa modifica servirebbe a rafforzare le tutele dei lavoratori negli appalti e subappalti, perché ogni azienda coinvolta sarebbe pienamente incentivata a prevenire gli infortuni. Oggi, infatti, un’azienda che affida un appalto potrebbe sentirsi “al riparo” da responsabilità per alcuni rischi, delegandoli all’appaltatore; abolendo la clausola di esclusione, invece, nessuno potrebbe scaricare il rischio interamente su altri. I sostenitori del Sì ritengono che così si aumenterebbe l’attenzione alla sicurezza: il committente sceglierebbe con più cura ditte qualificate e controllerebbe con maggiore rigore le misure di prevenzione, sapendo di poter essere chiamato a rispondere in caso di incidente grave. In definitiva, votare Sì vorrebbe dire “chi inquina paga” anche negli appalti: chi trae beneficio dall’appalto (il committente) non potrebbe più declinare responsabilità sugli incidenti, con un generale innalzamento degli standard di sicurezza sul lavoro.
Se vince il NO: la situazione attuale rimane invariata. Continuerà ad applicarsi l’art.26 comma 4 nella sua formulazione vigente, che esclude la responsabilità solidale del committente per i rischi specifici propri dell’attività dell’appaltatore. In caso di infortunio causato, ad esempio, da un rischio peculiare del lavoro svolto dall’appaltatore, la ditta committente non sarebbe co-responsabile dei danni al lavoratore (restando ovviamente ferme le responsabilità dell’impresa esecutrice). I contrari all’abrogazione sostengono che questa eccezione abbia una sua logica: il committente, specie se appartiene a un settore diverso, non ha competenza diretta su certi rischi tecnici propri dell’appaltatore specializzato. Rendere comunque responsabile il committente anche per quegli eventi potrebbe essere visto come eccessivo o ingiusto, soprattutto se questo ha adempiuto a tutti gli obblighi generali di sicurezza (informare, cooperare, coordinarsi) e l’incidente è dovuto a negligenze specifiche dell’appaltatore. Dal punto di vista delle imprese, eliminare la clausola potrebbe tradursi in un aumento dei costi assicurativi e dei contenziosi legali in caso di incidenti, con un aggravio su chi esternalizza lavori. Alcuni temono anche che le aziende maggiori, sapendosi esposte a maggior rischio legale, potrebbero limitare gli appalti verso ditte piccole, penalizzando l’indotto e i subfornitori. Le associazioni datoriali, pur ribadendo l’impegno a migliorare la sicurezza, si dichiarano contrarie a questo referendum ritenendolo non lo strumento giusto: Confindustria ad esempio ha affermato di preferire interventi sulla formazione e prevenzione, aiutando le piccole imprese a fare sicurezza, piuttosto che aumentare le sanzioni o le responsabilità post-incidente.
Contesto: negli ultimi anni in Italia il tema delle morti sul lavoro e degli infortuni gravi è al centro dell’attenzione. Spesso, purtroppo, gli incidenti avvengono in appalti o cantieri dove sono coinvolte più aziende. Questo referendum, promosso anch’esso dalla CGIL, nasce dalla volontà di chiudere un “buco” normativo che – secondo i sindacati – permette a troppe aziende di sfuggire alle proprie responsabilità. L’articolo 26 del Testo Unico Sicurezza, infatti, è frutto di compromessi normativi: la frase che si propone di abrogare fu inserita nel 2009 e poi modificata nel 2013 e 2021, spesso su pressione di associazioni di categoria, per delimitare gli ambiti di responsabilità. I sostenitori del Sì citano casi concreti di incidenti in cui il gioco di rimpalli ha lasciato le vittime senza piena giustizia, e puntano il dito contro la catena di subappalti dove, all’ultimo anello, ci sono lavoratori più vulnerabili. Le forze di governo e le organizzazioni imprenditoriali, d’altro canto, sottolineano di non essere affatto contrari a migliorare la sicurezza (nessuno si dichiara “contro” la sicurezza sul lavoro), ma ritengono che la via maestra sia quella legislativa e contrattuale, ad esempio aumentando i controlli, la formazione e la cultura della sicurezza, più che attraverso l’abrogazione referendaria di questa norma. In Parlamento sono state avanzate proposte per inasprire le pene in caso di violazioni delle norme antinfortunistiche e per introdurre nuovi reati specifici (omicidio sul lavoro), segno che il dibattito su come garantire lavori sicuri è complesso e tocca molti aspetti, non ultimo la responsabilità civile e penale. Il referendum costringerà comunque a prendere posizione su un punto preciso: se mantenere o eliminare l’esenzione di responsabilità per il committente nei casi particolari previsti dal comma 4 dell’art.26.
Quesito 5: Cittadinanza italiana e requisiti di residenza
Testo ufficiale del quesito:
«Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?»
Argomento: a differenza degli altri, questo referendum non riguarda il lavoro ma la cittadinanza italiana per gli stranieri residenti. In particolare, mira a modificare la Legge 5 febbraio 1992 n.91 sulla cittadinanza, abbassando da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale continuativa in Italia richiesto a un cittadino straniero extracomunitario maggiorenne per poter fare domanda di cittadinanza. L’attuale legge del 1992, basata principalmente sul principio dello ius sanguinis (diritto di sangue), prevede infatti che solo chi nasce da almeno un genitore italiano acquisisce automaticamente la cittadinanza per nascita. Uno straniero nato in Italia da genitori stranieri non diventa cittadino italiano alla nascita; può richiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni e a condizione di aver risieduto senza interruzioni sul territorio italiano fino a quel momento. Invece, per un adulto immigrato in Italia, la via ordinaria per naturalizzarsi è la residenza legale di lunga durata: dopo 10 anni di residenza (per i non UE, ridotti a 4 anni per cittadini UE o 5 per apolidi/rifugiati), si può presentare istanza di concessione della cittadinanza. Dieci anni sono un requisito tra i più lunghi in Europa (Francia e Germania richiedono 5-8 anni, ad esempio). Il referendum, attraverso l’abrogazione mirata di parti dell’art.9 comma 1, lettera f) della legge, intende dimezzare questo termine da 10 a 5 anni. Vengono inoltre toccate alcune parole della lettera b) relative all’adozione da parte di cittadino italiano, per evitare effetti collaterali sul caso di stranieri adottati (questioni tecniche di coordinamento normativo). L’effetto politico generale del quesito è stato soprannominato anche “referendum sulla cittadinanza breve”.
Se vince il SÌ: verrebbero abrogati i passaggi di legge che oggi impongono 10 anni di residenza per la richiesta di cittadinanza, con l’effetto di ridurre a 5 anni il requisito minimo. In pratica, uno straniero non comunitario stabilitosi in Italia potrebbe chiedere la cittadinanza dopo cinque anni di residenza regolare anziché dieci. Una volta concessa la cittadinanza al genitore, questa si estenderebbe automaticamente ai figli minorenni (come già avviene). I promotori del Sì – un ampio comitato civico sostenuto da associazioni e partiti di area liberale e di sinistra – ritengono che ciò consentirebbe a circa 2,5 milioni di persone di origine straniera, che da anni vivono, lavorano o sono nate in Italia, di integrarsi pienamente e diventare italiani a tutti gli effetti. La campagna a favore sottolinea che molti immigrati contribuiscono alla società da lungo tempo e meritano diritti civili e politici (come il voto) senza dover aspettare un decennio. L’Italia, in confronto ad altri paesi UE, risulterebbe più allineata agli standard internazionali con un requisito di 5 anni. Inoltre, la speranza è che facilitare l’accesso alla cittadinanza favorisca l’inclusione e il senso di appartenenza, specialmente per i giovani di seconda generazione che si sentono italiani ma burocraticamente non lo sono. Da oltre 30 anni in Parlamento si discute di riformare la legge 91/1992 (introducendo ad esempio lo ius soli temperato o lo ius culturae per i minori), senza però approvare cambiamenti: i promotori considerano il referendum un modo per “uscire da uno stallo che dura da oltre 30 anni” e dare finalmente risposta a queste nuove generazioni.
Se vince il NO: non viene abrogata alcuna norma, e quindi resta in vigore la legge attuale sulla cittadinanza. Nulla cambierebbe: per i cittadini stranieri non comunitari continuerebbe a servire una residenza legale di almeno 10 anni in Italia prima di poter presentare domanda di cittadinanza. Le condizioni e le procedure resterebbero quelle attuali, senza alcuna facilitazione ulteriore. Chi è contrario al referendum ritiene che una questione delicata come la cittadinanza non andrebbe modificata per via referendaria, ma semmai attraverso una legge organica in Parlamento. Alcuni esponenti della maggioranza di centrodestra hanno dichiarato che “il referendum sulla cittadinanza non è lo strumento migliore per regolamentare la materia”, temendo che una vittoria del Sì lasci un vuoto normativo o crei confusione sui casi non esplicitamente disciplinati. A livello di merito, i sostenitori del No (in prevalenza partiti del centrodestra) sono contrari a un’eccessiva facilitazione dell’ottenimento della cittadinanza: secondo loro 10 anni di radicamento sul territorio sono una soglia già pensata per garantire un serio percorso di integrazione culturale e sociale. Dimezzare a 5 potrebbe, a loro avviso, svilire l’importanza della cittadinanza o incoraggiare flussi migratori con la prospettiva più rapida di diventare cittadini italiani. In generale, il fronte del No insiste che servirebbe semmai una riforma complessiva (che ad esempio distingua chi nasce e cresce in Italia dai nuovi arrivati), ma non con questo referendum. Mantendendo lo status quo, l’Italia continuerebbe ad avere uno dei requisiti più stringenti d’Europa per la naturalizzazione ordinaria, scelta difesa dai contrari come garanzia di serietà e gradualità nel concedere quello che viene considerato un privilegio, ossia il pieno ingresso nella comunità nazionale.
Contesto: questo referendum è nato da una campagna separata rispetto a quelli sul lavoro, promossa inizialmente da organizzazioni come Più Europa e Radicali Italiani e supportata da decine di associazioni della società civile. La raccolta firme, avvenuta anche online tramite la piattaforma digitale governativa, ha ottenuto 637.000 adesioni validate entro settembre 2024. La Corte Costituzionale ha dichiarato il quesito ammissibile a gennaio 2025 insieme agli altri quattro sul lavoro. Il tema della riforma della cittadinanza è da tempo oggetto di dibattito pubblico: termini come “ius soli” (diritto di cittadinanza per nascita sul suolo) o “ius scholae” (cittadinanza per chi compie un ciclo di studi in Italia) compaiono spesso, ma nessuna legge in tal senso è stata approvata finora. Il referendum in questione non introduce automaticamente lo ius soli, ma riducendo a 5 anni il requisito di residenza di fatto agevolerebbe soprattutto gli adulti immigrati e, indirettamente, le loro famiglie. Tra i favorevoli si schierano i partiti di opposizione di centrosinistra, varie reti antirazziste, sindaci di grandi città e personalità della cultura (nel corso della raccolta firme si sono esposti ad esempio storici, registi, sportivi in favore della riforma). Il governo e i partiti di destra, invece, invitano almeno implicitamente al No (o all’astensione), difendendo la linea della cittadinanza “per gradi” e legata principalmente al sangue o alla lunga permanenza. Da notare che il tema intreccia questioni identitarie e pratiche: l’Italia ha circa un milione di minori di origine straniera nati sul suo territorio che non sono cittadini italiani, e circa 2,6 milioni di residenti stranieri di lungo periodo; un’eventuale vittoria del Sì renderebbe molti di loro immediatamente idonei a chiedere la cittadinanza, con possibili effetti amministrativi (un alto numero di richieste da gestire) ma anche sociali e politici (nuovi cittadini elettori, ecc.). In caso di vittoria del No, resterà probabilmente sul tavolo la pressione per una riforma parlamentare: gli stessi promotori hanno dichiarato che, comunque vada, la mobilitazione ha avuto il merito di riportare all’attenzione pubblica il tema dei diritti di cittadinanza dei figli dell’immigrazione, rompendo un lungo stallo.
I cinque quesiti referendari dell’8-9 giugno 2025 toccano questioni importanti: tutela dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, diritti dei dipendenti di piccole imprese, lotta alla precarietà, sicurezza nei luoghi di lavoro e inclusione dei cittadini stranieri di lungo corso. Per ciascun quesito, il voto SÌ esprime la volontà di abrogare le norme vigenti (introducendo quindi cambiamenti nella direzione descritta), mentre il voto NO conferma l’ordinamento attuale. Il dibattito è acceso e vede posizioni contrapposte: sindacati e gruppi progressisti spingono per il cambiamento, mentre forze di governo, associazioni imprenditoriali e formazioni di centrodestra invitano alla prudenza o al mantenimento delle leggi esistenti. L’esito dipenderà anche dall’affluenza: raggiungere il quorum del 50%+1 non è scontato, ma la coincidenza con altre elezioni e l’impatto concreto di questi temi sulle vite di molti potrebbero motivare gli elettori. Come sempre, è fondamentale un’informazione accurata e imparziale: ogni cittadino potrà così esprimersi consapevolmente su queste scelte, che avranno importanti implicazioni pratiche sul mondo del lavoro e sulla società italiana.
N. | Titolo del Quesito | Descrizione Semplificata | Cosa Significa Votare SÌ | Cosa Significa Votare NO |
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1 | Licenziamenti illegittimi (Jobs Act) | Abrogazione del decreto legislativo n. 23/2015 che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, limitando la possibilità di reintegro per licenziamenti ingiustificati. | Ripristino della possibilità di reintegro nel posto di lavoro per i lavoratori licenziati ingiustamente. | Mantenimento dell’attuale normativa che prevede solo un’indennità economica in caso di licenziamento illegittimo. |
2 | Indennità per licenziamenti nelle piccole imprese | Abrogazione parziale della norma che fissa un tetto massimo all’indennizzo per licenziamenti senza giusta causa nelle aziende con meno di 15 dipendenti. | Eliminazione del limite massimo, permettendo al giudice di determinare l’indennizzo in base alla gravità del caso. | Mantenimento del tetto massimo all’indennizzo previsto dalla legge. |
3 | Contratti a termine | Abrogazione parziale delle norme che facilitano l’uso dei contratti a tempo determinato, riducendo le condizioni e i limiti per proroghe e rinnovi. | Reintroduzione di vincoli più rigidi per l’utilizzo dei contratti a termine, favorendo la stabilità lavorativa. | Mantenimento della flessibilità attuale nell’uso dei contratti a tempo determinato. |
4 | Responsabilità in caso di infortuni sul lavoro | Abrogazione della norma che esclude la responsabilità solidale del committente in caso di infortuni subiti da lavoratori di imprese appaltatrici o subappaltatrici. | Estensione della responsabilità anche al committente, aumentando le tutele per i lavoratori. | Mantenimento dell’attuale esclusione di responsabilità per il committente. |
5 | Cittadinanza italiana per stranieri | Abrogazione della norma che richiede 10 anni di residenza legale per la concessione della cittadinanza a stranieri extracomunitari, riducendo il requisito a 5 anni. | Facilitazione dell’accesso alla cittadinanza per stranieri residenti legalmente da almeno 5 anni. | Mantenimento dell’attuale requisito di 10 anni di residenza legale. |
