Pozzuoli, 2 marzo 1970. Camion militari invadono le strette vie del centro storico, sirene spiegate risuonano tra gli antichi palazzi. I carabinieri hanno circondato il Rione Terra, il borgo arroccato sul promontorio a picco sul mare, cuore millenario della città. In pochi minuti centinaia di famiglie vengono strappate dalle loro case: uomini e donne trascinano fuori sacchi e valigie improvvisate, madri abbracciano materassi e bambini in lacrime, mentre soldati frettolosamente li aiutano a salire sui camion con quel poco che sono riusciti a raccattare. Le scene sono strazianti: tra urla, pianti e gesti disperati, un intero quartiere viene evacuato in un clima da esodo biblico. Nessuno aveva avuto preavviso. Nel giro di due giorni, dopo 2500 anni di vita ininterrotta, il Rione Terra viene completamente svuotato dei suoi abitanti. È l’inizio di una ferita che lascerà un segno indelebile nella memoria collettiva di Pozzuoli.
Tutto era cominciato qualche settimana prima, con piccoli segnali che in pochi avevano saputo interpretare. Dal febbraio 1970, i pescatori del porto di Pozzuoli avevano notato che qualcosa non tornava: la banchina sembrava più alta del solito, tanto da rendere difficoltoso l’approdo delle barche. In città ci si accorge che le onde lambiscono punti della riva prima sempre all’asciutto: il mare si è ritirato, oppure – più inquietante – la terra si è sollevata. È il fenomeno ancestrale del bradisismo, il “respiro” lento dei Campi Flegrei che fa alzare e abbassare il suolo periodicamente. Ma in quel momento il respiro pare trattenuto in petto: il terreno sale rapidamente, aprendo crepe nei muri e risucchiando il mare dalla costa. La memoria storica corre a un precedente lontano ma terribile: nel 1538, proprio lì vicino, il suolo si sollevò per due anni e poi il monte si spaccò dando vita al vulcano Monte Nuovo. L’allarme corre tra gli abitanti e raggiunge i palazzi del potere.
Fu la giornalista Eleonora Puntillo a dar voce ai timori, collegando i fatti in un articolo dal titolo evocativo: «Il mare si ritira, bolle il vulcano». Quelle parole, pubblicate sul quotidiano l’Unità il 22 febbraio 1970, squarciano il velo di silenzio. Improvvisamente Pozzuoli attira l’attenzione dei media nazionali e internazionali: giornalisti e scienziati accorrono a capire se davvero un nuovo vulcano stia per nascere sotto la città. In pochi giorni, il panico serpeggia tra la popolazione. Le autorità locali vengono incalzate: i fenomeni del bradisismo sono evidenti e non possono più essere ignorati. La terra che si solleva fa paura, ma a spaventare ancor di più è l’incertezza. Cosa fare? Evacuare preventivamente o aspettare? Nessuno vuole una tragedia come quella del Vajont o del Belice, disastri recenti ancora impressi nella coscienza nazionale. Si decide di agire subito.
All’alba del 2 marzo 1970 il destino del Rione Terra viene segnato. Mentre il sindaco di Pozzuoli e gran parte della giunta comunale sono insolitamente assenti, convocati d’urgenza a Roma per una riunione straordinaria, a Pozzuoli scatta un’operazione lampo. Il prefetto di Napoli, Angelo Molinari, dopo aver consultato vulcanologi e geologi, ordina l’evacuazione immediata del quartiere antico come misura precauzionale. È un vero e proprio blitz: senza alcun preavviso, all’improvviso centinaia di agenti, carabinieri e militari fanno irruzione nel rione all’ombra del Duomo.
In poche ore circa 3.000 residenti del Rione Terra vengono sfollati a forza. Intere generazioni che erano nate e cresciute all’ombra della rocca vengono costrette a lasciare tutto: le case, le botteghe, le memorie di una vita. Sui volti dei puteolani si legge incredulità e terrore. Alcuni anziani rifiutano di abbandonare la propria casa, aggrappandosi alle porte; vengono portati via di peso dai militari. C’è chi tenta di rientrare per salvare un oggetto caro, chi chiama disperatamente un familiare rimasto indietro. In tanti scoppiano in pianto, altri gridano la propria rabbia contro le autorità. “Ci cacciate via come delinquenti!”, urla una donna mentre stringe al petto i suoi bambini. Non c’è tempo per spiegare: in un’atmosfera surreale, la colonna di camion si muove lentamente lasciando il rione deserto, diretta fuori città.
La notizia si diffonde in un lampo e getta nel panico anche il resto di Pozzuoli. Sebbene lo sgombero riguardi formalmente solo il Rione Terra, il timore di un’eruzione imminente spinge migliaia di altri cittadini a fuggire spontaneamente dalle proprie abitazioni in quelle ore convulse. Interi quartieri si svuotano: famiglie che abitavano nelle zone vicine fanno le valigie alla meglio e si allontanano in auto, in treno, come possono. Secondo le cronache dell’epoca, complessivamente fino a 30.000 persone abbandonarono Pozzuoli in quei giorni, in quello che venne vissuto come un esodo di massa. “Sembrava l’Apocalisse” ricorderà qualcuno. Le strade verso Napoli sono intasate da un fiume di automobili cariche di masserizie. Molti sfollati si riversano nelle piazze del centro di Napoli cercando informazioni e un riparo per la notte. Nel frattempo, i telegiornali trasmettono immagini drammatiche: madri con gli occhi lucidi stringono i figli infreddoliti, padri caricati di borse e sedie, bambini spauriti che si aggrappano a giocattoli salvati all’ultimo momento. Pozzuoli è sotto shock.
All’indomani dello sgombero forzato, inizia per gli abitanti del Rione Terra una dolorosa diaspora. Chi ha potuto, si è rifugiato da parenti o amici nei paesi vicini. Molti però non hanno nessuno che li possa accogliere. Le autorità allestiscono alloggi di emergenza: una parte degli sfollati – paradosso crudele – viene sistemata provvisoriamente nei padiglioni vuoti di un ospedale psichiatrico, il Leonardo Bianchi (detto “Frullone”) a Napoli. Intere famiglie di pescatori e artigiani abituate al mare si ritrovano così stipate in camerate spoglie e gelide di un manicomio, lontano dal proprio mondo. Per molti, infatti, lo sgombero significa perdere anche il lavoro oltre alla casa: i pescatori del Rione Terra ora alloggiano in località dell’entroterra a decine di chilometri dal porto e non sanno come tornare ogni giorno a mare; i piccoli commercianti hanno perso la bottega e la clientela; gli artigiani non hanno più il loro laboratorio.
Il governo cerca di tamponare come può l’emergenza: ogni famiglia riceve un sussidio straordinario di 30.000 lire (poco più di uno stipendio operaio dell’epoca) e biglietti ferroviari gratuiti per raggiungere eventuali parenti lontani in altre regioni o all’estero. Alcuni ne approfittano, emigrando temporaneamente presso familiari emigrati in Germania, in Svizzera o al Nord. Ma la maggior parte resta in Campania, aspettando indicazioni sul futuro. Settimane si trasformano in mesi, mesi in anni. Gli sfollati del Rione Terra vivono in sistemazioni di fortuna per circa sette anni, in attesa che lo Stato mantenga le promesse di nuovi alloggi. Solo alla fine del decennio, infatti, verranno completati i primi appartamenti popolari nel nuovo quartiere di Toiano, costruito appositamente per accogliere i puteolani rimasti senza casa. Nel frattempo, generazioni abituate a vivere tutte insieme “ncopp o’ Rione” (sul Rione) si ritrovano disperse in vari comuni: Napoli città, Giugliano, Qualiano, Quarto, Marano, persino Caivano o Castel Volturno. Molti legami di vicinato si spezzano; la comunità originaria viene sradicata e disseminata sul territorio.
Ogni giorno, dal Frullone o dagli altri alloggi provvisori, gruppi di uomini fanno la spola fino a Pozzuoli per portare avanti quel che resta delle proprie attività. Ma è dura: chilometri di viaggio per calare le reti in mare all’alba, per poi tornare a dormire lontano dal porto; ore sui treni per chi lavorava in città. Le scuole devono accogliere improvvisamente bambini sfollati da Pozzuoli, spesso senza nemmeno i libri o i vestiti necessari. È una vita sospesa, in esilio nella propria terra.
Intanto, il vulcano tace. Il bradisismo continua con alti e bassi per altri due anni, ma non ci sarà nessuna eruzione catastrofica. Col senno di poi, molti sfollati si chiedono se quello sfollamento forzato fosse davvero necessario. “Non ce n’era bisogno… ci hanno buttato fuori per nulla” si lamentano in tanti col passare del tempo. A crescere, insieme alla nostalgia di casa, è un sentimento di amara consapevolezza: a distruggere il loro mondo non è stato il fuoco del vulcano, ma l’intervento umano, lo Stato che li ha sgomberati in nome della sicurezza. “Non vogliamo fare la fine dei terremotati siciliani”, dichiarano alcuni sui giornali dell’epoca, ricordando come dopo il sisma del Belice del 1968 migliaia di sfollati vissero per anni nelle baracche. Ironia della sorte, i puteolani del Rione Terra condivideranno un destino simile di lunga attesa.
Mentre le famiglie cercano di rifarsi una vita altrove, il Rione Terra svuotato diventa una città fantasma. Appena terminato lo sgombero, le autorità transennano l’accesso al quartiere e murano con pareti di tufo i suoi tre ingressi principali. Dietro quelle barriere resta un mondo sospeso: case lasciate con la tavola ancora apparecchiata, panni stesi sui balconi, negozi con la merce sugli scaffali, come se gli abitanti dovessero rientrare da un momento all’altro. Ma quel ritorno non avverrà mai. Nel giro di poche settimane il silenzio cala sulle viuzze dove fino al giorno prima risuonavano le voci e i rumori della vita quotidiana. Pozzuoli perde il suo centro vitale: il Rione Terra, che per secoli era stato anima e cuore pulsante della città, rimane chiuso e sorvegliato dai militari.
Quella che doveva essere una misura temporanea diventa ben presto una condizione permanente. Passano i mesi, il pericolo sembra scampato, ma nessuno permette ai residenti di rientrare nelle proprie case. Le crepe sui palazzi, i vicoli stretti, le norme di sicurezza: ufficialmente il rione non è più agibile. Col tempo, subentra anche l’idea di ristrutturare radicalmente la zona, approfittando del fatto che ormai è vuota. E così, per decenni, il Rione Terra resta lì, ferito e abbandonato. I pochi che osano penetrarvi trovano un luogo spettrale: erbacce alte nei cortili, finestre aperte sul buio, mobili coperti di polvere, e quel che è peggio sciacalli in azione. Nel corso degli anni ’70, infatti, il rione diventa terra di nessuno. Predoni e ladri entrano indisturbati a saccheggiare tutto ciò che ha valore: mobili antichi, statue sacre dalle chiese, infissi, decori architettonici. Persino le porte e le maioliche vengono razziate. Interi palazzi crollano per l’incuria e i danni del tempo, altri vengono deliberatamente demoliti nel discutibile tentativo di “alleggerire” la struttura urbana. Il risultato è che, a dieci anni dallo sgombero, del vecchio Rione Terra resta solo uno scheletro in rovina, spogliato di gran parte delle sue bellezze.
Nonostante i divieti, attorno al 1971 alcune famiglie senza casa forzano i muri e tornano ad occupare abusivamente gli edifici del rione. Sono circa un centinaio di nuclei, provenienti anche da altri comuni, che vedono in quelle abitazioni vuote l’unica soluzione alla loro disperazione. Per anni vivono senza servizi essenziali, arrangiandosi tra le macerie. Clamorosamente, anche il Vescovo di Pozzuoli rifiuta di lasciare la sua residenza nel Rione Terra e rimane nella “cittadella” religiosa quando tutto attorno è deserto, dando coraggio agli abusivi che dicono: “Se può restare il Vescovo, perché non possiamo restare noi? Anche noi siamo esseri umani”. La situazione si protrarrà fino al 1980, quando – dopo il terremoto dell’Irpinia – le autorità riusciranno a sgomberare definitivamente quegli occupanti tagliando acqua e luce persino al Vescovado pur di farli andare via.
Solo nei primi anni ’90, a oltre 22 anni dallo sgombero, inizieranno i progetti di recupero del Rione Terra. Nel frattempo, sotto i palazzi sventrati, gli archeologi scoprono le vestigia dell’antica Puteoli romana: templi, strade, magazzini portuali intatti sotto le fondamenta delle case moderne. La storia si era sedimentata sotto le vite di quelle famiglie ora lontane. Il cantiere di restauro andrà avanti a fasi alterne per decenni, tra lungaggini burocratiche e difficoltà tecniche. Oggi il Rione Terra è in parte ristrutturato e aperto al pubblico come percorso archeologico e polo turistico. Eppure, nonostante la “rinascita” architettonica, non ha più una comunità residente. Quella vera è stata dispersa per sempre.
L’evacuazione forzata del Rione Terra rimane una delle pagine più dolorose nella storia di Pozzuoli. A distanza di cinquant’anni, la ferita è ancora aperta nei ricordi di chi la visse. Molti sfollati, ormai anziani, non hanno mai dimenticato. Le fotografie d’epoca mostrano volti sconvolti e lacrime: gente comune costretta a lasciare la propria casa sotto scorta armata, più impaurita dalle divise che non dal cratere lontano. Per Pozzuoli fu un trauma non solo materiale ma soprattutto umano: il tessuto sociale lacerato, le famiglie divise, un’identità comunitaria spezzata dall’oggi al domani.
Eppure, da quella sofferenza è nata anche una resilienza tenace. I puteolani hanno saputo ricostruirsi un’esistenza altrove, senza mai perdere il legame con le proprie radici. Oggi, quando si passeggia per i vicoli restaurati del Rione Terra, può capitare di incrociare qualche anziano con lo sguardo velato di ricordi. Sono gli ex residenti, tornati da visitatori nei luoghi dove un tempo giocavano da bambini. Quella generazione non riconosce più il rione come casa propria, trasformato com’è dal restauro, eppure molti aspettano ancora l’occasione di poter varcare di nuovo quella soglia – fosse anche solo per un giorno – e riabbracciare con lo sguardo le stanze della propria infanzia, per raccontare a figli e nipoti di quando quelle strade brulicavano di vita e di come, in un giorno di marzo di tanti anni fa, tutto cambiò per sempre. È una ferita tramortante e netta, un taglio traumatico nella storia di Pozzuoli, ma anche una storia di coraggio e identità. Quella del Rione Terra è la storia di un popolo che ha perso la propria casa in poche ore, ma che non ha mai perso la propria anima.
Fonti utilizzate per questo articolo: cronache raccolte da testate locali e archivi storici; articoli commemorativi (Il Mattino, Corriere della Sera, Unità, Pozzuoli21); reportage internazionali (Undark Magazine); documenti d’epoca e varie ricerche sul bradisismo flegreo.
