Immaginiamo di avere un piccolo banco al mercato dove vendiamo arance. Un giorno, il gestore del mercato rionale decide di far pagare un pedaggio a chi viene da fuori quartiere per vendere i propri prodotti. Ecco, i dazi funzionano un po’ così: sono tasse aggiuntive sulle merci importate da altri Paesi. Se gli Stati Uniti di Donald Trump decidono di applicare questi “ticket d’ingresso” ai prodotti europei, cosa succede?
Per l’Italia e l’Unione Europea, i dazi di Trump sono come un improvviso aumento del prezzo del biglietto per uno spettacolo a cui partecipano come venditori. Significa che i prodotti Made in Italy arriverebbero sugli scaffali americani con un prezzo maggiorato dalla tassa. Quali rischi comporta tutto questo?
- Meno esportazioni, meno guadagni: molti compratori americani, trovando i prodotti europei più costosi a causa dei dazi, potrebbero scegliere alternative locali o di altri Paesi non colpiti. Per le aziende italiane vorrebbe dire vendite in calo negli USA, fatturati più bassi e potenzialmente la necessità di tagliare costi (nei casi peggiori anche posti di lavoro). È come se la nostra bancarella di arance al mercato vendesse meno frutti perché il pedaggio ci costringe ad alzare i prezzi: a fine giornata incassiamo meno e magari la frutta invenduta va sprecata.
- Settori a rischio: alcuni settori italiani rischiano più di altri, perché dipendono molto dal mercato americano. Il Centro Studi Confindustria ha evidenziato che l’export italiano verso gli USA è più esposto della media europea, rappresentando il 22,2% delle vendite extra-UE dell’Italia (contro il 19,7% della media UE). In particolare, quasi quattro bottiglie su dieci del vino e delle bevande che esportiamo vanno a finire in America, e circa un terzo delle nostre automobili (e altri veicoli) e dei prodotti farmaceutici ha come destinazione gli USA. In altre parole, se gli Stati Uniti alzano una “barriera” doganale, questi settori italiani potrebbero prendere una bella botta. Ad esempio, i produttori di prosecco trevigiano o di supercar modenesi potrebbero vedere calare gli ordini da oltreoceano.
- Effetto domino sull’economia: l’Italia ha un sostanzioso surplus commerciale con gli Stati Uniti (vendiamo molto di più di quanto compriamo da loro). Nel 2024 le imprese italiane hanno venduto beni negli USA per circa 65 miliardi di euro, con un saldo positivo vicino ai 39 miliardi. Se queste vendite diminuiscono, ne risentirebbe tutto il sistema: meno entrate per le aziende, meno investimenti e possibili ricadute sull’occupazione. Il rischio non riguarda solo l’Italia, ma anche l’intera UE: una guerra commerciale a colpi di dazi può frenare la crescita economica europea. Gli analisti stimano perdite di svariati miliardi di euro se le tariffe aggressive venissero davvero applicate su larga scala.
- Ritorsioni incrociate: infine, c’è il rischio dell’escalation. Se l’America impone dazi, l’Europa potrebbe rispondere con altri dazi (lo vedremo meglio più avanti). Questo scambio di colpi somiglia a una lite tra vicini che iniziano a farsi dispetti a vicenda: alla fine entrambi ci rimettono. Ad esempio, dazi americani sulle nostre esportazioni potrebbero far diminuire la produzione in Italia, mentre contromisure europee renderebbero più costosi per noi alcuni prodotti made in USA (dalle moto alle famose arachidi americane). Il risultato? Consumatori e imprese di entrambe le sponde dell’Atlantico pagherebbero il conto.
I dazi di Trump rappresentano per l’Italia e l’UE un temporale all’orizzonte: se arriva la tempesta protezionistica, i settori più esposti rischiano di bagnarsi parecchio. Ma l’Europa non intende stare a guardare senza aprire l’ombrello.
Infatti, l’Unione Europea, di fronte ai dazi minacciati da Trump, si comporta un po’ come una squadra compatta di fronte a un avversario aggressivo: fa quadrato e prepara la difesa insieme. Non dimentichiamo che in materia commerciale l’UE si muove unita. I singoli Stati membri (Italia compresa) non possono negoziare da soli accordi o dispute commerciali.
Ecco le possibili reazioni e mosse dell’UE:
- Contromisure “occhio per occhio”: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che tariffe ingiustificate contro l’Europa “non rimarranno senza risposta” e che Bruxelles reagirà con misure ferme e proporzionate per difendere i propri interessi, proteggendo lavoratori, aziende e consumatori europei. In pratica, significa che se Washington tassa pesantemente, l’Europa farà lo stesso sui prodotti americani. Un esempio concreto? Qualche anno fa, quando Trump impose dazi su acciaio e alluminio europei, l’UE rispose immediatamente tassando una serie di beni “simbolo” americani. All’epoca vennero colpiti, tra gli altri, i jeans Levi’s, le motociclette Harley-Davidson, il bourbon whiskey e perfino il burro di arachidi. È un po’ come dire: “Se tu metti un pedaggio ai miei prodotti, io faccio pagare un pedaggio ai tuoi”.
- Dialogo e diplomazia: allo stesso tempo, l’UE cercherà la via del dialogo. Le minacce di dazi di Trump spesso sono anche una mossa negoziale. In altre parole, lui alza la voce (e i dazi) per ottenere concessioni. L’Europa potrebbe quindi sedersi al tavolo delle trattative per evitare la guerra commerciale, e potrebbe offrire degli aggiustamenti. Si tratta di un equilibrio delicato: l’UE non vuole dare l’idea di cedere ai ricatti, ma nemmeno vuole finire in una spirale di ritorsioni.
- Protezione e sostegno interno: intanto, Bruxelles può preparare misure di sostegno alle imprese europee danneggiate. Potrebbero essere attivati fondi europei per aiutare i settori colpiti dai dazi USA, oppure temporaneamente allentate alcune regole sugli aiuti di Stato per permettere ai governi (Italia inclusa) di dare un sostegno ponte alle aziende in difficoltà. Ad esempio, se i produttori di formaggi italiani subissero un calo di vendite in America a causa dei dazi, l’UE e lo Stato italiano potrebbero intervenire con promozioni su altri mercati o con incentivi per innovare i processi produttivi, in attesa che la tempesta passi.
- Ricorso alle regole internazionali: l’UE crede molto nelle regole del commercio internazionale e potrebbe appellarsi all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO) sostenendo che i dazi di Trump violano gli accordi. Sarebbe come portare la questione in tribunale: ci vogliono tempo e pazienza, ma serve a dimostrare che l’Europa ha ragione secondo le leggi condivise. In passato, contese del genere sono state risolte (anche se lentamente) con questo arbitro internazionale. Certo, durante il primo mandato Trump l’OMC ha avuto vita difficile, ma l’UE potrebbe riprovare questa strada, sottolineando di essere dalla parte delle regole.
In poche parole, l’UE potrebbe reagire alle minacce di Trump con una combinazione di fermezza e dialogo: da un lato pronta alla controffensiva (dazi di ritorsione), dall’altro aperta a trattative per evitare il peggio. L’obiettivo è evitare che la situazione degeneri, un po’ come placare due bambini litigiosi prima che rompano tutti i giocattoli.
Le principali esportazioni italiane verso gli Stati Uniti
Per capire bene perché l’Italia è così preoccupata dai dazi USA, dobbiamo vedere cosa vendiamo noi italiani agli americani. Immaginate gli Stati Uniti come un enorme “cliente” che acquista da noi una vasta gamma di prodotti, dai più tecnologici ai più golosi. Ecco i prodotti italiani più esportati negli USA (dati 2023), con qualche esempio concreto:
- Macchinari e apparecchiature industriali (circa 20% del totale) – Questo è il settore numero uno: l’Italia esporta molte macchine utensili, macchinari per fabbriche e impianti industriali. Sono quelle grandi macchine che magari un cittadino comune vede poco, ma che servono a far funzionare industrie in tutto il mondo. Ad esempio, dagli USA comprano macchinari per l’imbottigliamento del vino, per il confezionamento dei cibi, macchine tessili e attrezzature per costruzioni prodotte in Italia. È come se fossimo un’officina specializzata e gli USA fossero un cliente che compra i nostri attrezzi di alta qualità.
- Mezzi di trasporto, incluse automobili e motociclette (circa 17% del totale) – In questa voce rientrano auto, moto, parti di aerei e altri veicoli. Pensiamo alle automobili di lusso italiane come Ferrari, Lamborghini o Maserati che sfrecciano sulle highways americane, o alle moto Ducati amate dai centauri oltreoceano. Ma ci sono anche tanti componenti prodotti in Italia (ad esempio ingranaggi, pneumatici speciali, pezzi per aerei) che vengono esportati negli USA. Gli americani apprezzano la nostra ingegneria: è un po’ come se comprassero da noi i “pezzi di ricambio” o i gioielli su due e quattro ruote per arricchire il loro parco mezzi.
- Articoli farmaceutici e chimico-medicinali (circa 12% del totale) – L’Italia è un grande produttore di farmaci, vaccini e principi attivi chimici. Molte aziende farmaceutiche hanno stabilimenti in Italia che producono medicinali poi venduti negli Stati Uniti. Ad esempio, potremmo avere farmaci per la cura di malattie rare prodotti nei laboratori del Lazio o della Lombardia che finiscono nelle farmacie di New York. Questo settore, pur poco visibile, è cruciale: è come se esportassimo salute, sotto forma di pillole e fiale, contribuendo alle cure dei pazienti americani.
- Prodotti alimentari, bevande e tabacco (circa 10% del totale) – Ecco il Made in Italy che fa venire l’acquolina in bocca: vino, pasta, formaggi, olio d’oliva, salumi, ma anche acqua minerale e liquori. Gli Stati Uniti sono pieni di ristoranti italiani e di appassionati della nostra cucina, quindi importano grandi quantità di parmigiano reggiano per la pasta alla carbonara, olio extravergine per condire l’insalata, prosecco e Chianti per brindare, e perfino caffè espresso in capsule. Questa categoria comprende anche il tabacco (sebbene più limitato) e, in generale, tutto ciò che sulle tavole americane porta un tocco d’Italia. Pensiamo alle feste di Thanksgiving dove, accanto al tacchino, non è raro trovare un buon vino italiano!
- Abbigliamento, tessili, pelli e accessori (circa 8% del totale) – La moda italiana fa furore negli USA. Vestiti firmati, scarpe, borse e accessori in pelle made in Italy sono molto richiesti. Dalle boutique di Manhattan ai centri commerciali di Los Angeles, i consumatori americani cercano il lusso e lo stile italiano: una borsa di Gucci, un abito di Armani, un paio di scarpe Tod’s o magari occhiali da sole Ray-Ban (che, pur essendo un marchio americano, produce molto in Italia). In pratica, esportiamo un pezzo del nostro stile di vita, come se mandassimo oltreoceano le passerelle di Milano in formato prodotto.
Oltre a queste categorie principali, l’Italia esporta anche mobili e design, gioielli e prodotti in metallo, e molto altro. Ma i settori elencati sopra coprono quasi la metà di tutto l’export italiano verso gli Stati Uniti. Questo elenco ci fa capire perché i dazi di Trump fanno paura: colpirebbero in pieno alcuni dei nostri punti di forza. È un po’ come se il nostro miglior cliente al negozio improvvisamente trovasse più caro metà degli articoli che gli vendiamo e quindi rischiamo di vederlo uscire dal negozio con meno borse della spesa, e quindi con meno incassi per noi.
Le contromisure che l’Italia potrebbe adottare per difendersi
Di fronte alla minaccia dei dazi, l’Italia non vuole restare con le mani in mano ad aspettare il temporale, e pur mossa all’interno del coro dell’UE, può preparare strategie di difesa e adattamento. Vediamone alcune, spiegate in modo semplice:
- Diversificare i mercati di sbocco: l’idea di base è “non mettere tutte le uova nello stesso paniere”. Se un’azienda vende tantissimo in America, è più esposta ai capricci dei dazi USA, proprio come un contadino che coltiva un solo prodotto rischia di più se quel raccolto va male. Le imprese italiane possono cercare di aprire nuovi mercati altrove: più clienti in Asia, in America Latina, in altri paesi del mondo, così da dipendere meno dagli umori di quello americano. Ad esempio, un produttore di macchinari del Veneto potrebbe guardare al Canada, all’Australia o ai paesi del Golfo come nuove destinazioni. Gli esperti sottolineano che diversificare è fondamentale per ridurre il rischio tariffario e che le aziende che hanno saputo farlo (magari anche vendendo online e usando tecnologie digitali per raggiungere clienti lontani) sono quelle che resistono meglio alle tempeste commerciali. Certo, trovare nuovi mercati richiede tempo e investimento, ma è una sorta di rete di sicurezza per non cadere da un trapezio solo.
- Aumentare il valore aggiunto e puntare sulla qualità unica: un’altra contromisura è rendere i nostri prodotti così speciali che, dazi o non dazi, gli americani vorranno comprarli lo stesso. Se vendiamo un prodotto unico, magari con un marchio forte, i clienti potrebbero accettare il prezzo più alto pur di averlo. È un po’ quello che accade con beni di lusso o con cibi gourmet: chi desidera il Parmigiano Reggiano autentico potrebbe continuare a comprarlo anche se costa qualche dollaro in più, perché nessun formaggio locale ha lo stesso sapore. Questo non elimina il danno dei dazi, ma lo attutisce, come un ombrello robusto sotto la pioggia. Per l’Italia significa puntare sull’eccellenza, sul branding internazionale (il famoso Made in Italy) e sull’innovazione, così da offrire prodotti che non abbiano facili sostituti. Ad esempio, un’azienda di moda potrebbe investire su design e materiali innovativi per mantenere l’appeal dei suoi capi, rendendoli “irrinunciabili” per i fashion lover americani.
- Produrre direttamente negli Stati Uniti (quando possibile): alcune aziende, soprattutto le più grandi, possono scegliere di “andare incontro al cliente” aprendo stabilimenti o filiali proprio negli USA. In questo modo, i prodotti vengono realizzati sul suolo americano e non sono soggetti ai dazi all’ingresso. È un po’ come se il nostro venditore di arance del mercato aprisse un frutteto direttamente nel quartiere dei suoi clienti: le sue arance non devono più passare dal casello e pagare il pedaggio. Questa strategia è già adottata da diverse imprese italiane. In pratica, avendo già una base negli Stati Uniti, quell’azienda sarebbe al riparo dai dazi e anzi, potrebbe vedere i concorrenti stranieri penalizzati dal pedaggio mentre i suoi prodotti (made in USA) no. Ovviamente, aprire stabilimenti all’estero non è fattibile per tutte le imprese perché richiede capitali ed una certa scala, ma è una tendenza che potremmo vedere crescere se la guerra commerciale si inasprisse.
- Sostegno governativo e piani di emergenza: il Governo italiano può muoversi su due fronti. Primo, lavorare dietro le quinte diplomatiche (in coordinamento con l’UE) per far valere le ragioni italiane: ad esempio, spiegando agli alleati americani quanto certi dazi danneggerebbero non solo l’Italia ma anche i consumatori USA, cercando magari di ottenere esenzioni per alcuni prodotti chiave. Non dimentichiamo che Trump stesso ha avuto parole di apprezzamento per l’Italia e per la nostra premier, ed ogni buon rapporto può aiutare a smussare gli angoli. Secondo, preparare piani di supporto alle industrie colpite: ciò potrebbe includere ammortizzatori per i lavoratori (se un’azienda esportatrice entra in crisi temporanea, si possono attivare strumenti come la cassa integrazione per evitare licenziamenti), incentivi o crediti d’imposta per chi investe in nuovi mercati o in efficienza, e campagne promozionali alternative (ad esempio, spingere di più il made in Italy sul mercato interno o in altri Paesi per compensare il calo negli USA). In sostanza, fare in modo che l’economia “respiri con l’altra gamba” se una viene colpita.
- Uniti e informati: infine, l’Italia può fare squadra con gli altri Paesi UE più colpiti per far pressione insieme. Inoltre, tenere informate le nostre imprese è cruciale: ad esempio, spiegare bene alle PMI cosa significherebbe l’introduzione di certi dazi, in modo che possano prepararsi per tempo. A volte anche solo ridurre l’incertezza aiuta: se le aziende sanno a cosa possono andare incontro, possono pianificare scorte, prezzi e contratti di conseguenza, evitando mosse azzardate.
Per i nostri connazionali emigrati negli Stati Uniti, i dazi introdotti da Trump potrebbero influire indirettamente sul valore e sulla gestione dei loro beni in Italia. Ad esempio, se la situazione economica italiana risente di un calo delle esportazioni verso gli USA, potrebbe esserci un effetto domino sui prezzi immobiliari in alcune zone o sui costi di manutenzione delle proprietà.
Inoltre, se i dazi portano ad una svalutazione delle imprese italiane o ad una diminuzione della fiducia degli investitori esteri, i nostri connazionali potrebbero trovarsi a riconsiderare i propri piani di investimento. I progetti di chi desidera tornare a investire nel mercato italiano, sia in attività imprenditoriali, sia acquistando ulteriori beni immobili, potrebbero essere ritardati o rivalutati in base a nuove condizioni economiche meno favorevoli.
Per chi invece sta pensando di rientrare in Italia o di trasferire parte dei propri risparmi e investimenti nel Paese, l’incertezza legata alle dinamiche commerciali con gli USA potrebbe rappresentare un freno. Ad esempio, se i dazi incidono sul valore del cambio euro-dollaro o influenzano l’andamento generale dell’economia italiana, ciò potrebbe tradursi in rischi maggiori per chi sta progettando di investire nel mercato immobiliare o in attività imprenditoriali in Italia. D’altro canto, un rallentamento economico potrebbe anche significare prezzi più bassi per chi è in grado di aspettare il momento giusto per comprare.
Quindi, i nostri connazionali negli USA che hanno beni in Italia o che desiderano investirvi devono tenere d’occhio non solo l’andamento del mercato immobiliare, ma anche le ripercussioni economiche più ampie dei dazi di Trump. Essere informati e pronti a valutare diverse opzioni d’investimento sarà fondamentale per prendere decisioni ponderate in un contesto economico incerto.
La parola d’ordine è resilienza: adattarsi, reagire e tenere duro finché il vento contrario (dei dazi) non si placherà. E chissà, con il tempo e il dialogo, potrebbe tornare il sereno sui rapporti commerciali transatlantici, permettendo al fiorente scambio tra Italia e USA di riprendere a crescere senza nuovi ostacoli.
