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La leggenda della Janàra di Torregaveta. Un racconto di Pasquale Mancino

Alcuni secoli fa, sull’incantevole isola di Ischia, viveva una janàra molto temuta per le sue potenti capacità magiche ed occulte.
Si chiamava Sabella e nessuno sapeva con certezza da dove fosse arrivata, ma la sua fama era talmente grande che tutti conoscevano la crudeltà dei suoi incantesimi e chiunque osava avvicinarla correva il rischio di essere vittima di terribili e spietati malefìci.

Sabella era una vecchia strega, dall’aspetto veramente sgradevole e repulsivo. Fin dalla sua infanzia, era stata piuttosto brutta e forse proprio a causa di questa sua condizione, aveva sviluppato la mania di trasformare tutte le giovani donne attraenti in individui altrettanto brutti e sgraziati come lei.

La sua casa era piena di vecchi libri di magia e di fiale misteriose, contenenti filtri e veleni con cui aveva rovinato tante esistenze. Affondava frequentemente le sue lunghe ed arcuate unghie nelle carni di uccelli, topi e rettili, raccoglieva erbe velenose per i suoi intrugli malvagi e coltivava un interesse malsano per la tortura.

La sua miserabile vita era trascorsa a perseguitare e rovinare la bellezza e la giovinezza altrui. Ogni volta che vedeva una ragazza carina per strada, il suo cuore si riempiva di livore e il suo sguardo diventava truce e perfido. Stringeva fra le mani la sua pozione magica e si precipitava dalla malcapitata per trasformarla in un mostro, prima che potesse affascinare qualche giovanotto.

In questo modo, era riuscita nel corso degli anni a rovinare la vita a varie decine di innocenti fanciulle, private della loro grazia e attrazione, così come lei stessa era stata privata di ogni gioia terrena.

Un giorno, sfortunatamente, anche la bellissima e adorata figlia di un vecchio e nobile cavaliere isolano cadde vittima delle diavolerie di Sabella, diventando talmente brutta che neanche la madre riuscì a riconoscerla. Il padre allora, in preda alla più profonda disperazione, decise di catturare la strega con l’intento di costringerla a sciogliere l’incantesimo che aveva lanciato contro la sua amata figliola.

Ma, nonostante le atroci torture del cavaliere e dei suoi orridi uomini, Sabella si rifiutò ostinatamente di rivelare l’antidoto per l’incantesimo. Era consapevole che, anche svelando il segreto, la sua vita sarebbe giunta comunque al termine.

Di fronte a tale circostanza, il vecchio cavaliere ischitano optò per un’alternativa drastica e decise di rinchiuderla in un luogo della terraferma, buio e desolato, dove nessuno potesse udire le sue invocazioni e dove neanche la luce del sole riuscisse a penetrare. Così scelse il ventre dell’alto costone tufaceo che affaccia sulla spiaggia e sul mare di Torregaveta. Lì la rinchiuse in una piccola segreta scavata sottoterra, lasciandola senza alcuna compagnia e privandola persino di cibo e acqua, nella speranza che il suo isolamento la spingesse a rivelare il tanto desiderato antidoto.

Le pareti verticali di tufo e la posizione appartata rendevano quella prigione inaccessibile. Nessuno si sarebbe mai avvicinato a quel luogo maledetto, eppure, era ben visibile anche dalla sua isola, come se il cavaliere volesse mostrarle che il suo potere era illimitato e che nessuno avrebbe dovuto osare sfidarlo.

La strega, abbandonata e imprigionata in quel luogo infernale, cercava di resistere alla disperazione, ma le pareti della sua cella sembravano stringerla sempre di più, mentre il frastuono delle onde che si infrangevano impetuosamente sulla scogliera sottostante e le grida del vento che si schiantavano rabbiose contro il promontorio di tufo sembravano diventare sempre più furiosi ed assordanti.

Sabella non sapeva quando sarebbe riuscita a fuggire da quel luogo straziante, se mai ci fosse riuscita, ma la sua rabbia e la sua sete di vendetta crescevano ogni giorno di più, alimentate dalla consapevolezza che quell’uomo aveva commesso un crimine imperdonabile ai suoi occhi.

Accompagnato in barca dai suoi agguerriti soldati, il cavaliere si recava a Torregaveta tutti i giorni per chiedere alla perfida strega se avesse cambiato idea, ma sempre senza successo.

Intanto Sabella diventava sempre più disperata nella sua tenebrosa fossa e batteva ripetutamente la testa contro il costone tufaceo nel tentativo di crearsi un varco per liberarsi. Ma il suo sacrificio fu vano e dopo diciotto lunghi giorni di stenti morì sola e incatenata in quell’orribile galera sotterranea.

La notizia della morte di Sabella si diffuse rapidamente su tutta l’isola, portando un senso di sollievo e di liberazione per gli abitanti. La vecchia janàra, con la sua malvagità e i suoi poteri nefasti, aveva terrorizzato l’isola per troppo tempo, rendendo le notti più oscure e le giornate più cupe. Ora che la sua presenza non era più una minaccia, le fanciulle isolane potevano finalmente godersi la luce del sole e la pace della notte.

La sua esistenza e le sue malefatte furono cancellate dalla memoria collettiva ischitana, come se la sua morte rappresentasse la fine di una lunga e dolorosa stagione di oppressione e di paura. Mai più si parlò di Sabella su quell’isola.

Ma a Torregaveta, negli anni successivi, in seguito ad uno smottamento, la sommità del costone dove la strega era stata prigioniera, assunse una forma terrificante: quella del profilo del viso della maligna janàra contorto dalla rabbia e dal dolore.
La montagna sembrava essersi trasformata in un triste e spaventoso monumento alle nefandezze della terribile Sabella e manteneva le sue cicatrici come un muto e angoscioso ricordo.

Le persone del posto cominciarono a vedere in quelle forme malefiche un segno di sventura e sciagura e si tramandavano le storie dell’orrenda strega e del suo spirito dannato, forse ancora vagante per quel luogo. Ogni giorno, davanti a quel volto di pietra, ricordavano con terrore il potere occulto che era stato sconfitto al prezzo di tanta umana sofferenza.

Secondo la credenza popolare, chiunque osava posare lo sguardo sul volto di Sabella scolpito su quel costone, poteva percepire tutto il male che essa aveva disseminato nel corso della sua oscura esistenza e non poteva mai più dimenticarlo.

Si diceva che la sua espressione diabolica fosse in grado di catturare lo sguardo di chiunque si avvicinasse e che, una volta incantati, si rischiava di perdere l’anima e diventare suoi schiavi per sempre.

Tuttora, a Torregaveta è possibile osservare chiaramente il volto rabbioso di Sabella impresso nel tufo ed alcuni anziani del posto sostengono che in certe notti di vento, quando la luna illumina il costone, si riesce a udire l’eco dei suoi orribili lamenti che invocano ancora vendetta.

— Pasquale Mancino

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