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Recupero del dialetto montese, gli avverbi di tempo: musèr, jòje, crèje, piscrèje e tanti altri termini e curiosità meno conosciuti

Vista la grande curiosità ed il forte interesse per il nostro antico dialetto, suscitati dal mio piccolo racconto della “lardiàta” (vedi a fine articolo), ho deciso di pubblicare periodicamente alcuni termini ed espressioni dialettali tipiche della nostra vecchia lingua dialettale montese/procidana/napoletana. Parallelamente agli articoli cercherò di creare un database con tutti i termini ed i significati in modo da permetterne poi ricerche più mirate.

Al recupero del dialetto è dedicata la “Giornata nazionale del dialetto“, un evento al quale partecipano le Pro-Loco italiane e che si tiene ogni anno il 17 gennaio a partire dal 2013.

Tengo a premettere ed a precisare che non sono un insegnante e non sono mai stato molto bravo in grammatica, quindi tutto questo lavoro è, e sarà, sempre e solo frutto della passione per la mia terra. Siete tutti invitati a segnalare errori, correzioni, integrazioni, suggerimenti.

Su invito degli amici facebook cominciamo questa nuova avventura esaminando alcuni tipici avverbi di tempo del nostro dialetto.

Musèr (o Mmussèra): questa sera.
Deriva da “Mò sera“, cioè la sera di adesso.
Musèr se l’ha trasuto rènto“. Tipico detto per chi riceve il fidanzato in casa senza il permesso dei genitori. Da notare che il detto non è privo di allusioni.

Jòje o ghiòje: oggi, inteso come pomeriggio, le ore pomeridiane.
Deriva dal napoletano “Oje” e dal latino “Hodie”.
Un’espressione tipica è: “quann é ghiojè” o il famoso detto “Jòje é succiès nu vòtta-vòtta, nu fùja-fùja e nu sérra-sérra” cioè: oggi c’è stata una gran confusione ed ognuno scappava e si rinchiudeva in casa.
In alcuni casi, però, Jòje veniva adoperato anche per indicare la mattina (jòje juorn) e la notte (jòje nott).

Créje: domani.
Deriva dal napoletano “Craje” e dal latino “Cras”.
Si dice che sia l’imitazione del verso della cornacchia e delle rane (cra cra).
Famoso è il detto “fa craje craje comm i curnacchia“, dicesi di chi parla, parla ma rimanda le cose da fare. Oppure il modo di dire “A craje a craje”, cioè dall’oggi al domani.

Piscréje: domani l’altro cioè dopodomani
Deriva dal napoletano “Pescraje” e dal latino “Post cras“.

Curiosita: Créje e Piscréje sono sicuramente termini molto conosciuti perché adoperati abitualmente a Monte di Procida almeno fino agli anni ’70, ma pochi invece conoscono i termini seguenti che sono ancora più antichi:

Piscrìgno: terzo giorno a partire da oggi.
Deriva dal napoletano “Pescrìgno“.

Piscrògna: quarto giorno a partire da oggi.
Deriva dal napoletano “Pescruòzzo“.

I due vocaboli suddetti sono andati in disuso nel tempo anche perché sembra che non vanno mai usati separatamente, cioè non si può dire “Ce verimmo piscrìgno” per indicare che ci vediamo tra tre giorni. Essi si adoperano soltanto per indicare la sequenza dei giorni: Jòje, Crèje, Piscréje, Piscrìgno, Piscrogna.

Ajère (o aiere): ieri, il giorno appena passato.
Uguale al napoletano “Ajère“, deriva dallo spagnolo “Ajer”.
Molto particolare il detto: “Ajere facive ‘u vuappo a mare e mo fai ‘u strunzo ‘int’ ‘a spasella“, cioè: ieri facevi il guappo in mare ed oggi fai lo sciocco dentro una cesta. Il detto ha per protagonista un pesce, ma in realtà il riferimento è ad una persona che prima faceva il gradasso e poi non ha combinato nulla di buono.

Da notare alcune combinazioni molto utilizzate del vocabolo “ajère“: ajèremmàtin (ieri mattina), ajèressèr o ajssèra (ieri sera), ajèrennòtt (ieri notte), l’atrajère o l’autrière (l’altro ieri).

Molto utilizzate anche le combinazioni “ajère a otto” cioè tra una settimana e “ajère a quìnnece” cioè tra due settimane. La particolarità di queste combinazioni è che partono dal passato (ajère) per andare nel futuro, ad una o due settimane avanti.

Auànn (o l’ancora più vecchio Auènn): quest’anno, l’anno in corso.
Deriva dal napoletano “Aguanno” e dal latino “Hoc Anno“.
Modo di dire: “sti figghjole r’auànno“, usato in senso un po’ dispregiativo verso le abitudini ed i costumi delle ragazze dei tempi moderni.

Per gli anni passati invece abbiamo:

Mòfallàn (Mò-fà-l’ann o il più antico Mòfaddènn): adesso fa un anno, usato per indicare l’anno scorso.

Meno utilizzati ma sempre facente parte del nostro dialetto i termini:

Mòfàddendènn (Mò-fà-ddend-ènn Mòfàddujènn): due anni fa.
Mòfàtriènn (Mò-fà-tri-ènn): tre anni fa.

Curiosità:
per indicare il futuro delle settimane, mesi ed anni si utilizzano due locuzioni verbali diverse: per gli anni si usa “vene” esempio “l’ann ch’ vene” (l’anno prossimo), mentre per i mesi e le settimane si usa “trase” ad esempio ” ‘u mese ch’ trase (il mese prossimo), ” ‘a semmana ch’ trase” (la settimana prossima).

Questo è solo un primo assaggio, nelle prossime puntate tratteremo altri interessanti argomenti del nostro straordinario dialetto. Aspetto i vostri contributi.

Grazie!

— Pasquale Mancino
made with <3

Per completezza riporto anche qui il racconto della Lardiàta che ha dato spunto a questa iniziativa sul recupero del dialetto.

L’altro ieri (venerdì 27 aprile 2018), attraversando Casevecchie ho ascoltato un gruppetto di anziani che discuteva sull’emergenza furti nelle abitazioni montesi di quest’ultimo periodo. Ad un certo punto uno degli anziani ha detto, testuali parole: “Si allòng a tir a un ‘r chist, luà fò ‘na lardiàta comm sta ‘nghèp a me“….(Se mi capita a tiro uno di questi ladri, gli devo fare una lardiata come sta nella mia testa).

Appena ho ascoltato questa “minaccia”, mi sono sentito portato indietro nel tempo, era proprio da tanto che non udivo più il termine: “lardiàta“.

Per “lardiàta” oggi si intende una violenta dose di percosse, ma essa deriva dalla barbarica usanza, durante l’epoca vicereale di Napoli, di lanciare pezzetti di lardo bollente sui condannati a morte mentre questi raggiungevano il patibolo spesso posizionato al ponte Licciardo oggi ponte della Maddalena.
I condannati venivano fatti sfilare dalla Vicaria fino al luogo del supplizio su un carretto trainato da muli in modo che tutti li vedessero e spesso la folla partecipava gettando il lardo bollente che si attaccava alle carni e le bruciava intensamente aumentando la sofferenza del condannato prima dell’esecuzione capitale.

La lardiàta che ci riguarda più da vicino è sicuramente quella che minacciavano spesso i genitori di un tempo (ed a volte la mettevano anche in pratica) mediante l’uso della “Currèja” (cintura dei pantaloni) e quindi si intende più una solenne bastonatura ( ‘na currejàta).

Era tipico sentire un genitore minacciare in questi modi:
Musér, a chiùs ‘r port, to fò ‘na lardiàta comm dio cummann” o “Si t’acchiappo tò lardiò buon e megghjo“, oppure “Mò ‘na lardiàta nun t’ ‘a leva nisciun“.

Detto questo, auguro al vecchietto di non ritrovarsi mai e poi mai davanti ad un ladro del genere perché immagino che sia molto più giovane e senza scrupoli di lui e quindi la “lardiàta” non so chi potrebbe veramente subirla.

— Pasquale Mancino
made with <3

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