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Storia di Monte di Procida, il cimitero dei colerosi di via Inferno

Nel 1836 una grave epidemia di colera colpì Napoli e provincia mietendo un altissimo numero di vittime. L’epidemia ebbe due fasi: la prima durò dal 2 ottobre 1836 all’8 marzo 1837. La seconda, più terribile della prima, dal 13 aprile al 24 ottobre 1837.

Sia l’Editto di Saint Cloud (1804) che quello borbonico (marzo 1817) vietavano di seppellire i defunti nelle chiese, soprattutto i deceduti per malattie infettive. Così, per accogliere le spoglie dei morti per colera si realizzarono, tra il 1836 ed il 1837, diversi cimiteri sia a Napoli che nei dintorni.

Anche a Monte di Procida, nel 1836, all’epoca non ancora comune autonomo, per scelta del comune unito di Procida, venne realizzato un cimitero per i colerosi in località via Inferno, proprio a ridosso del costone che affaccia sulla Baia dei Porci. In questo cimitero furono seppelliti i morti per colera provenienti da tutta la provincia di Napoli. I montesi, in quel periodo, si tenevano abbastanza alla larga dalla zona.

Il cimitero dei colerosi di via Inferno si estendeva su un’area di 16,66 are corrispondenti a 1666 mq ed è stato operativo fino al 1888 quando si procedette alla esumazione di tutti i cadaveri presenti.

Dopo il 1888, il comune di Procida non avendo più bisogno di quel terreno per uso di cimitero, ne dispose la vendita ad asta pubblica, ma i relativi incanti, nel 1895 e nel 1902 andarono deserti perché nessuno voleva saperne di comprare quel terreno che era stato sede del cimitero dei colerosi.

Fu solo più tardi che il proprietario del terreno limitrofo, Scotto di Santolo Michele Arcangelo, cominciò ad estrarne abusivamente la pozzolana senza che il comune di Procida intervenisse. Ma nel 1907 quando, in seguito al decreto del 27 gennaio, Monte di Procida si avviava a diventare, in tutto e per tutto, un comune autonomo, il commissario prefettizio Cav. Vincenzo Marchetti mise alle strette lo Scotto di Santolo, offrendogli comunque la possibilità di acquistare il terreno.

Fu così che il terreno venne venduto allo Scotto di Santolo alla somma di 1.500 lire; 500 lire all’atto della stipula e le altre 1.000 lire in due rate annue di 500 lire al 4 luglio 1908 e 500 lire al 4 luglio 1909 con gli interessi a scalare del 4%.

Gli attuali anziani di Casevecchie, che negli anni ’50 erano ragazzini, ricordano che scendendo dal costone verso la Baia dei Porci spesso ritrovavano vecchi pezzi di ferro e di ottone, quasi sicuramente maniglie e pomelli delle bare utilizzate per i colerosi. Portavano felicemente questi pezzi a casa pensando di fare cosa gradita, ma ricevevano soltanto rimproveri e punizioni dai genitori che ben conoscevano la provenienza e l’uso di quei materiali.

Pasquale Mancino

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