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La nostra Isola su terraferma del prof. Giovanni Pugliese

LA NOSTRA ISOLA SU TERRAFERMA

Cenni sull’evoluzione della condizione lavorativa nella Comunità di Monte. Una riflessione.

Giovanni Pugliese

 

Ai tutti quelli che nella nostra breve storia

partirono da questo luogo

non per il desiderio dell’ignoto,

ma solo per la dignità che dà il lavoro.

E persero la vita.

 

Nell’arco breve della storia della nostra Comunità, appena poco oltre il secolo, la condizione lavorativa è mutata radicalmente, così come altrove. Da quel lontano, ma non remoto, 1907 il concetto stesso di Lavoro si è profondamente trasformato, dappertutto.

Sono mutati i paradigmi stessi del produrre e del consumare, a tutte le latitudini; il mondo nel suo insieme ha subito nell’arco del cosiddetto “secolo breve”, il ‘900, tante e tali trasformazioni da non consentire neppure alla più superficiale delle analisi di rintracciare tratti comuni o aspetti residuali di realtà preindustriali, ancora molto presenti agli inizi dello scorso secolo. E tutto il mutare planetario, le trasformazioni che hanno prodotto ovunque quella che gli studiosi chiamano la “modernità”, qui, e oltre, ha sconvolto anche nel rapporto individuo/produzione, uomo/lavoro, ogni precedente situazione, ogni certezza, le radici stesse di quel rapporto vecchio di secoli, e persino di millenni.

Scenari nazionali. Quando, quel 27 gennaio 1907, Monte si affaccia sul proscenio della storia nazionale con la nuova condizione di ex borgata procidana divenuta Comune, l’Italia è, grosso modo, ancora quella dei Padri dell’Unificazione. Quella della debole dialettica Destra/Sinistra storica, dell’irrisolto dualismo Nord/Mezzogiorno, della già iniziata ondata migratoria verso l’America meridionale e poi settentrionale. E, soprattutto, è l’Italia preindustriale che non ha fatto alcun passo sulle orme del vecchio Cavour, teorico e pratico di una progettualità modernizzante, finita con la sua morte precoce. Quando inizia l’età giolittiana, l’Italia non ha vissuto neppure la prima fase di quella che gli storici dell’economia, con espressione sintetica, definiscono “rivoluzione industriale”, con chiari riferimenti agli sconvolgimenti epocali che nell’Inghilterra di metà Settecento cambiarono tutto del Lavoro e della realtà da cui esso scaturiva e si alimentava.

A inizio ‘900, l’Italia di Giolitti, è noto, consolidò ed irrobustì le intraprese industriali già fiorite nel tessuto di quella parte del Paese che fin dal sec. XVIII, nei mutamenti portati dalla Grande Rivoluzione, ma anche da Napoleone e dal Congresso di Vienna, erano state favorite proprio dalla presenza di domini stranieri, francesi o asburgici che fossero. Per quell’ironia, che pensatori romantici avevano preconizzato quale risvolto “involontario” di quanto accade al di là dei disegni dei protagonisti delle vicende umane, le parti più avanzate e moderne, proiettate oltre le Alpi, nell’Europa che Metternich non riuscì mai a riportare del tutto ai fasti dell’ancien régime, erano quelle che la storia aveva tolto a classi dirigenti locali, per consegnarle a conquistatori stranieri. L’industrializzazione da noi si presentava alquanto a macchia di leopardo: dal Piemonte ex sabaudo, ai fertili territori del fu Regno Lombardo Veneto, all’ex Granducato dei Lorena in Toscana. Terre per secoli appartenute a signori e governi fuori dei nostri futuri confini, quando dopo due guerre risorgimentali l’Italia divenne Regno. Perfino gli unificatori sabaudi, i Piemontesi protagonisti del salto del 1861, erano espressione di una cultura di ascendenza francese, sia pure presenti fin dal secolo XV nelle intricate vicende italiane.

 Gli interventi del decennio giolittiano sostengono e allargano le iniziative negli spazi settentrionali del Paese partendo dai prerequisiti qui accennati, e spingono gli storici a definire concordemente quel tempo come il primo momento della trasformazione in senso moderno dell’Italia, ma lasciano pressoché intatto e irrisolto il problema Nord-Sud. Anzi. Esso permane, nonostante le varie, e anche utili, Leggi speciali promulgate per regioni e settori meridionali, che evidenziano i limiti di interventi parziali, incapaci di realizzare ancora a cinquant’anni dall’Unità, un omogeneo processo di crescita nazionale. Non si attivano infatti sistemi nuovi di produzione, circolazione, formazione; non cresce una realtà di ceti aperti e sensibili ad interessi che non siano strettamente i propri, non si determina quasi nulla che avvii un qualche mutamento nei rapporti tra forze sociali contrapposte. Nel Mezzogiorno rimangono al centro della scena i detentori della rendita fondiaria, i padroni della terra, il latifondo, simbolo di una posizione sociale di prestigio, ma “assenteista” dai processi produttivi, uguali a quelli dei secoli passati e, assai più in basso, una debole borghesia, spesso incolta e desiderosa di entrare nelle sfere alte attraverso la conquista della proprietà o con l’ingresso in professioni di prestigio sociale: avvocati, notai, intellettuali “organici”, come dirà Gramsci, al potere e agli equilibri cristallizzati di una società immobile ed enormemente gerarchizzata. La base produttiva, superfluo sottolinearlo, è l’immensa massa del mondo contadino, articolata al suo interno tra i piccolissimi proprietari, spesso in rapporti di dipendenza semiservile col Signore, erede di nobili casate, e i braccianti in balìa dell’andamento delle stagioni e, ancor più, delle bizze e della volontà di proprietari terrieri, nemici dello Stato centrale, oppressivi e protervi nei confronti dei dipendenti.

Un quadro generico, ma credo tipico di una realtà tanto simile a quella dell’Europa preindustriale, da apparire senza tempo, sovrastorica, immobile. Solo nel Nord, le prime forme di capitalismo nelle campagne, con la determinazione di un surplus di braccia, e il sorgere di attività artigianali e proto industriali, creano dinamiche nuove, del tutto estranee alla vecchia società contadina. Non a caso era stato il territorio più povero di quella parte d’Italia che stava crescendo negli anni ’80 dell’800 a creare la prima domanda di emigrazione, quando sulla scia delle posizioni della Destra storica ancora vigeva il divieto per la stessa al tempo del governo Depretis; e dalle aree venete e basso padane, dal delta del maggiore fiume italiano avevano iniziato ad andarsene le prime migliaia di braccianti italiani, diretti verso i bacini sudamericani del Rio Grande e/o delle periferie in espansione caotica di Rio de Janeiro e di altre capitali di quel continente. Sono i processi di razionalizzazione del capitalismo, ancorché arretrato, a creare disoccupazione e, quindi, necessità di emigrare, fin da prima della legge sull’emigrazione del 1888, negli anni ’70 del secolo.

Gli studiosi concordano nel sottolineare che l’intera società nazionale sia sostanzialmente ancora ferma al secolo XIX almeno fino alla prima guerra mondiale, e che la nascita della “società di massa” apparsa in Europa e nel Nord America almeno trent’anni prima, da noi emerga solo dopo gli sconvolgimenti che il primo conflitto crea in tutte le società, occidentali ed orientali. Questo per dire che il nostro Paese ancora a inizi ‘900 ha pochissimo conosciuto le trasformazioni del taylorismo-fordismo entrato nell’organizzazione del lavoro, essendo la fabbrica, la grande manifattura, ancora largamente assente, o sporadicamente presente solo in zone specifiche. E che la condizione lavorativa standard, un po’ dappertutto, è ancora quella del produttore artigianale, unità di una filiera alquanto tradizionale; e che solo dopo le prime razionalizzazioni del mondo rurale appare la fabbrica così come la conosciamo nel ‘900. Una condizione lavorativa che anche nelle “aree forti” e avanzate stenta a trasformarsi in “sistema”, prevalendo ancora un rapporto personalistico e paternalistico tra il proprietario-imprenditore e la massa di quasi tutti ex contadini inurbati, analfabeti, privi di diritti e, anzitutto, coscienza delle nuove, mai viste, condizioni lavorative, ignorati da una legislazione assai lontana da quanto vanno facendo non solo l’Inghilterra conservatrice, ma la Francia del II Impero e l’appena unificata Germania di Bismarck. Da noi i lavoratori non sono ancora classe, aggregato di individui accomunati da condizione e bisogni, ma forza-lavoro che entra ed esce dalla produzione secondo la necessità della stessa: non ha orari, difese, diritti. Una condizione arretrata, irriconosciuta dalla Carta Costituzionale vigente, lo Statuto Albertino nato in altra epoca, mitigata solo dalle prime organizzazioni di produttori, con le Leghe socialiste o cattoliche.

La situazione locale. In questa realtà qui approssimativamente delineata, qual era la condizione del lavoro nell’appena nato Comune di Monte di Procida? Certo costituiva un quadro non dissimile da quel che si è detto per l’Italia. E questo per diversi decenni nel secolo dell’autonomia da Procida. Un lavoro legato principalmente alla cura della terra e del vino, molto probabilmente con la condizione, per così dire, itinerante del lavoratore, già prima del distacco amministrativo dall’isola-madre. Nel senso che Monte era sede di proprietà agricole piccole e piccolissime da molto, forse da sempre, di certo nei secoli di appartenenza a Pozzuoli e, prima ancora, a potentati di Napoli e della Chiesa partenopea. Lungo tutto l’arco della storia moderna la borgata, come allora si definiva, alquanto isolata e quasi separata dai vicini siti limitrofi, Bacoli e Pozzuoli, più ancora dalla molto decantata Baiae degli Antichi, la nostra borgata era stata come avvolta nel sonno della storia, secondo le documentazioni prodotte da storici locali. Poche case, pochissima popolazione residente, una chiesa, non ancora un cimitero, vigne a perdita d’occhio, quasi le stesse che dopo la disfatta borbonica a Gaeta, incantarono Ludovico Quandel, soldato di Francesco II, padre della Comunità che diventa Comune autonomo. Questi sono gli albori della nostra storia, tutta contemporanea.

 Nei lustri e decenni, secoli direi, che precedono la nostra Autonomia, questi luoghi sono selve e boschi, filari di viti lungo i crinali dolci ma impegnativi delle “coste” affacciate sul mare azzurro di fronte a Procida o, dall’altro lato, come ritrattisi da Cuma, la città più antica, centro della madre greca di queste terre. I pochi residenti vi restano per periodi più o meno lunghi, secondo le necessità dei lavori rurali. Sono dipendenti-servi di signori, proprietari fin dall’epoca medioevale o più recente. Nel tempo arrivano anche i primi proprietari senza signori, contadini di zone non vicine che stanziano in casupole di fortuna o nei più confortevoli cellai, le costruzioni spontanee spesso nate sugli stessi perimetri o fondazioni di antichi insediamenti di villae risalenti all’epoca di Roma. La realtà di esistenze precarie, che solo tra i secoli XVI e XVII attesta la presenza di “fuochi”, cioè di famiglie numerabili e stabili. Almeno nei due nuclei storici della borgata: la zona centrale dove poi sorgerà la chiesa dell’Assunta, con i contigui spazi denominati più tardi Arret u’Vico, e, nella parte alta del paese, il futuro quartiere di Sant’Antonio, il cui toponimo, ‘Ncopp’i ccase, rivela proprio la condizione di luogo elevato abitato. I non molti dati documentali sulla realtà produttiva e lavorativa evidenziano la prevalenza assoluta dell’occupazione rurale, insieme alle forme di artigianato “necessario” ad essa legato. Oltre ai mestieri basilari: il fornaio-panettiere, il lattaio proprietario di qualche capo di bestiame, il falegname-mobiliere, il sarto; ci sono in questo mondo semplice coloro che curano, costruiscono, riparano gli strumenti indispensabili alla terra: il mastro d’ascia-bottaio, il fabbro; ma anche i mestieri nati dalle necessità del lavoro sul mare, l’altra grande presenza del nostro microuniverso: coloro che tessono e riparano le reti per la pesca, i costruttori di barche, i curatori-produttori delle vele, i calafati, cioè gli impermeabilizzatori degli scafi, secondo antichissime tradizioni mediterranee. Più pescatori che marinai veri e propri. Un mondo povero, con lavori semplici e duri, tramandati da una generazione all’altra, come avveniva in tutto il resto del mondo tra Sette e Novecento.

Realtà che non muta di molto lungo le lente, ma radicali metamorfosi che il paese vive, almeno nella prima metà del ‘900. Alla Comunità che cresce al ritmo delle trasformazioni nazionali, non corrisponde un mutamento qualitativo della condizione lavorativa. Tra la prima guerra, il fascismo, la seconda guerra e la Ricostruzione degli anni ’48-’53, apparentemente il volto di questa realtà non muta di tanto. Rimane, forte, il suo aspetto di piccolo centro che ruota intorno alla terra, al tempo, alle fatiche che si alternano uguali nell’arco dell’anno. Se la drammaticità del conflitto ‘15-‘18  aveva proiettato il borgo-paese nella grande storia, coi suoi morti e il senso di appartenenza che derivava dall’essere stato parte della catastrofe, fu il ventennio del regime che determinò forse la prima vera accelerazione della storia anche da noi. Nel senso che sembra di poter affermare che allora si determinarono le prime significative distinzioni tra famiglie proprietarie della terra e del commercio della stessa e i molti altri che sulla terra producono i frutti che essa concede. Tra gli anni ’20 e ’30, l’espansione edilizia locale, ma soprattutto di zone confinanti o lontane, determina l’inizio dell’estrazione del nostro più importante materiale da costruzione, la pozzolana. Si incrementano così le antiche attività delle cave, insieme a quelle di tufo giallo, la preziosa pietra “dolce” spesso presente sotto lo strato pozzolanico. Uno snodo centrale per la nostra storia, con interventi che modellano e deturpano il territorio e le sue forme e creano un ceto di proprietari terrieri imprenditori e la nascita di figure di lavoratori cavapietre, manodopera che agisce entro le nuove specializzazioni che l’attività di estrazione e di trasporto mette in moto. Fino agli addetti ai pontili in ferro sporgenti dalla costa in vari punti, dai quali quei materiali riempiono le stive di barche, dirette poi alle isole vicine, ma anche ad altre coste degli spazi del Tirreno. E’ il momento del passaggio dalla navigazione a vela, millenaria eredità di tutte le civiltà del Mediterraneo, a quella a motore. Una sorta di nostrana rivoluzione industriale, quasi un recupero del tempo perduto, dopo secoli di silenzio e di lavoro nella natura sterminata con le sole zappe e falci, al più con la complessità della carrucola per sollevare l’acqua dalle cisterne. I tempi, però, erano maturi: quando il podestà esprimeva la democrazia di quell’epoca, la società del Monte era scossa da mutamenti che ne avrebbero cambiato la natura. Il nuovo quadro sociale ed economico merita ben altri approfondimento che queste poche note.

Da Baia, il più vicino porto, alla rupe di Torregaveta il paesaggio si presenta negli anni ’30-  ’60 costellato di agili pontili, in corrispondenza di più o meno ampi scavi sulla costa e, sotto questi, coni dalle chiare pareti di pozzolana, entro cui le maestranze fanno cadere quel terreno granuloso e asciutto, strappato alla collina. Insieme a blocchi o lastre di tufo, dissepolto e tagliato. Il lavoro delle cave costituì in quel lasso di tempo la nostra organizzazione più moderna e razionale: squadre di uomini armati di picconi, pale, enormi mazze ferrate e cunei, i cavatori, poi un certo numero di trasportatori del materiale ricavato dal lavoro dei primi, che rovesciano pozzolana e pietra nel tunnel tra il piano di estrazione e il ponte sottostante. Su questo, pochi uomini, i carrellieri, spingono pesanti vagoncini carichi del materiale precipitato, da rovesciare nella stiva della barca. Fu la modernità senza la catena di montaggio. Di questa aveva, però, la durezza e i tempi concatenati, l’esecuzione veloce e la sorveglianza discreta, ma decisa, del “padrone” della cava, quasi sempre proprietario dell’impresa di navigazione. A sentire le testimonianze dei molti che avevano fatto le due esperienze, neppure sulle navi da trasporto, in realtà barche di meno di un centinaio di tonnellate, il lavoro avrebbe mai raggiunto la “perfezione” e la durezza della cava. A bordo, infatti, pur nella rigidità dei ruoli e nella monotonia delle mansioni, il lavoro conservava un qualcosa di caotico e approssimato. La paga, il salario, ancora tra le due guerre, consisteva nella parte, la frazione del ricavato del “viaggio”, secondo la qualifica. Forse per la stretta familiarità parentale e/o di frequentazione che, per forza di cose, legava i protagonisti dell’impresa di navigazione. E di frequente l’intero equipaggio coincideva con lo stesso gruppo familiare, diretto o allargato. Dal “mozzo” al capitano correva, immaginiamo, umana simpatia assai più che distanza di grado.

 Ancora negli anni ’50 e ’60, ci si imbarcava a Baia, al più dopo pochissimi studi di avviamento marittimo. Si percorreva a piedi la distanza tra il paese e quel porto, attraversando Torre di Cappella, crinale tra la piana dei Mazzoni e la costa baiana popolata di cantieri fino al ‘900 inoltrato. Si saliva a bordo come si entra in una famiglia che attende. Quel mondo rude e totalmente maschile non conosceva regole precise d’ingaggio, salari dignitosi, riposo tra un “viaggio” e l’altro sul breve, ma irrequieto, specchio di mare tra Campania, Sardegna, Sicilia. Turni senza tregua, pasti frugali e talvolta “saltati” per le condizioni del mare, o in piedi, l’idea nostra di comfort estranea ad alloggi ed igiene a bordo, pagamenti a fine imbarco da mani avare…Erano aspetti quotidiani di quel lavoro sul mare che spingeva al rimpianto della condizione non certo bucolica, di una casa tra le vigne, l’orto vicino, l’esistenza coi piedi sulla terraferma. Perché l’incognita per il nostro navigante erano le condizioni imprevedibili del mare e del tempo. Quelle piccole navi cariche di materiali instabili durante una tempesta divenivano troppo spesso luoghi di tragedie che raramente lasciavano testimoni. E’ stato quello un lungo, tragico, capitolo della vita di questa Comunità, tra le origini e quasi tutto il secolo scorso. Non bastano parole a raccontare i tanti naufragi che hanno colpito i marinai, di Monte ma anche di Procida, delle zone sorrentine e vesuviane, nel periodo accennato. I mari azzurri della fatica e dell’avventura sono spesso divenuti amari abissi, di morte e sconfitta.

In questo quadro è cresciuto, si è strutturato un capitalismo commerciale marittimo, ricchezza e vanto di generazioni. Almeno fino alla prima grande svolta della crisi petrolifera del 1973. Dallo shock che nell’autunno di quell’anno provocò l’aumento del prezzo delle materie prime, non solo il petrolio, e fino ai cambiamenti internazionali che chiamiamo globalizzazione, il quadro sociale che l’organizzazione largamente familiare del lavoro sul mare aveva creato nei vent’anni precedenti, si modifica fino a dissolversi. In realtà, la crisi qui arrivò dopo gli anni ’80, quando si affievolirono gli intensi rapporti commerciali con la Libia del colonnello Gheddafi e, soprattutto, la marineria locale non fu in grado di entrare nei nuovi traffici con navi-containers, restando la flottiglia locale costituita da “navi rinfusiere”, cioè di merci varie e nessuna specializzazione. L’entrata in questo mercato del lavoro di maestranze povere di altri continenti – dopo il 2000, con l’introduzione del Doppio Registro -, ridusse gli sbocchi lavorativi per molti occupati locali, “bassa forza” prima, graduati più tardi. Il mercato corre(va) là dove il lavoro costa meno, e ciò determinò il declino del ruolo promozionale dell’occupazione sul mare.

Va detto che fin dai ’60, sulla scia di scelte pionieristiche iniziate subito dopo la guerra, si era formato un flusso costante di emigrazione verso gli Stati Uniti. Indebolito, ma mai interrotto, in questo ultimo decennio. La nostra tensione a solcare i mari infiniti e lontani, si volgeva ora, per necessità, verso le terre oltre l’Oceano, le città americane, sentite come una specie di Eldorado moderno e disponibile. Nel tempo in cui la precedente floridezza economica aveva creato una realtà socialmente dinamica, in cui i giovani si formavano nelle scuole superiori e le Università, apportando linfa nuova al mondo dei padri, un numero altissimo di ragazzi e ragazze, famiglie intere, partivano per l’America, entravano nel settore della ristorazione yankee, non sempre di qualità, ma dalle concrete prospettive di lasciare le insicurezze di un’economia in arretramento e senza i riferimenti precedenti. Poiché erano divenuti aleatori gli impieghi artigianali legati all’espansione edilizia, ridimensionato fortemente lo sbocco del mare, e con la terra ormai occupazione residuale di anziani e contadini della domenica, spazio senza reddito, divorato qua e là dall’abusivismo edilizio, altra piaga propria di queste e di altre terre italiane.

I rapidi cenni qui fatti al quadro nuovo nato dagli anni ’80 in qua, richiederà indagini e riflessioni sui dati quantitativi. Approfondimenti necessari a capire quanto è cambiato anche qui da noi, nella precarizzazione generale di ogni forma di lavoro, senza retoriche. Tra la polvere degli archivi e gli scenari di ricerche che raccontano di un mondo che, correndo verso il disconoscimento “strutturale” del lavoro sulla scia del post fordismo, e l’inseguimento di costi di produzione sempre più bassi, sembra annientare il fattore umano, qualificato o meno che sia. Servirà capire se permane ancora un qualcosa dell’allegra sagacia del concittadino di ieri. Anzitutto per spiegare la qui accennata “diversità” dal resto dei Campi flegrei e da gran parte del Mezzogiorno italiano. La differenza/distanza dalla Pozzuoli industriale di ieri, di artigianato e commerci diffusi; da Bacoli, gravitante su di un’agricoltura più forte nel suo più esteso territorio, ma legata anche ad aziende moderne come la ex Selenia; dalla piccola Cappella, coi prodigiosi carpentieri e muratori, e i commerci ambulanti… Sapere anche quanti nati tra le nostre viti abbiano lavorato in questo secolo nei Cantieri Armstrong (1885) di Pozzuoli, la fabbrica inglese di cannoni; quanti siano entrati all’Ilva, il gigante siderurgico nato dalla legge speciale per Napoli del 1905 ed aperto dal 1910; quali maestranze di Monte abbiano guadagnato dagli anni ’30 il pane a Baia nel Silurificio, poi Microlambda, poi Selenia, collegato con l’Isolotto di S.Martino, orgoglio e vanto del fascismo durante la seconda mondiale… E la moderna impresa di Adriano Olivetti, raccontata dalla penna asciutta di Ottiero Ottieri nel suo famoso romanzo-inchiesta, avrà avuto anche tecnici, operai, giovani di questo paese? Come pure, la nota ricchezza delle filiali bancarie presenti da noi, da quali attività ricevettero i loro enormi depositi? Certo dalla floridezza di un’economia di armatori e marittimi propensi al risparmio, ma anche dagli emigrati negli USA, perfino da traffici tra lecito e illecito, da sussurrate operazioni di acquisto/demolizione/affondamento di vecchie carrette. Traffici di vero e proprio contrabbando…Tutte realtà alle nostre spalle da portare alla luce con serie indagini sociologiche e storiche. Intanto a chi scrive appare chiaro il nostro assimilarci a ciò che è oltre la Città flegrea, ad una certa realtà della Napoli marittima, alle isole di fronte, ma anche alla costiera vesuviana, fino a Sorrento e Meta, col mare come denominatore comune e le diverse peculiarità culturali.

Se non altro, per capire cosa resti della nostra cultura sobria, ma un po’ chiusa e individualistica, o quel tanto di sfida che generazioni di dissodatori della terra lanciarono al loro vivere su una terra generosa ma insufficiente, uomini che sui flutti non amici avevano costruito fortune, vissuto drammi, conosciuto per avventura altri uomini lontani e diversi. E dove era fortissimo il richiamo religioso dell’Assunta, appartenenza per i lontani, centro di un culto sfociato talora in folklore. Oggi che, tra decentramento produttivo, delocalizzazione dell’impresa, dominio finanziario sull’intera economia, non si riesce neppure ad avere chiare definizioni del concetto di lavoro e della sua precarietà, è forse ancora utile capire se le nuove alienazioni abbiano del tutto disperso la natura specifica di questo lembo di terra. La nostra isola su terraferma.

Voglio chiudere queste note con la memoria di tutti coloro che nel tempo hanno dato la vita uscendo da qui, per un lavoro. Per noi, come per tutti, troppo spesso facili alla commozione, è fondamentale conservare sempre la memoria, pure quella dura e dolorosa.

 

Ringraziamenti. Sono debitore di suggerimenti illuminanti e generose indicazioni allo scrittore flegreo Rosario “Rosso” Capuano e ad Antonio Passione, conoscitore ed esperto del mare. Amici che da sempre allungano sguardi sulla particolarità problematica di questi luoghi.

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